Il giornalista Vincenzo Tessandori raccolse l'intervista che segue per il quotidiano La Stampa. Con Mario Spezi, lei e' coautore DI «Dolci colline DI sangue», in libreria domani per Sonzogno. Nel libro si sostiene che sullo sfondo degli otto duplici omicidi attribuiti al «MOSTRO DI FIRENZE» non sfilino nè «amici di merende» nè sette diabol-sataniche ma un clan sardo. E questa tesi ha finito per trascinare in carcere Spezi, accusato pure di omicidio, e le ha regalato un'imputazione per false dichiarazioni. Douglas Preston che cosa si prova a vivere dal di dentro una storia come questa?
Premetto che ho avuto una brutta sensazione, come se Mario fosse detestato e lo volessero disperatamente mettere in prigione. Per quanto mi riguarda, e' come se fossi caduto in un mio giallo, "La danza della Morte", nel quale racconto una situazione simile. Prima dell'arresto, Mario mi aveva confidato di sentirsi come dentro un film tratto da Kafka, interpretato da Jerry Lewis e Dean Martin. Ora mi domando: possibile che un tale abuso di potere accada in un Paese che ha regalato al mondo Dante, il Rinascimento, Galileo e Verdi? Che e' quasi sinonimo della parola civilta'? Io mi vergogno parecchio per quello che il mio Paese fa a Guantanamo, in dispregio dei diritti umani: ma la persecuzione di un giornalista che compie il suo dovere non e' dissimile, e cio' mi rende molto triste.
Da sempre Spezi sostiene che la pista giusta per i delitti del «MOSTRO» sia quella «sarda», emersa dopo il primo duplice omicidio, estate 1968, quindi scolorita. Che cosa l'ha convinta a seguire la sua teoria?
Il fatto che, secondo me, sia stata chiusa prematuramente. Parliamo di un indizio fondamentale: la pistola. Gli inquirenti sanno bene, o dovrebbero sapere, che in un "delitto di clan", commesso da un gruppo, un'arma non passa casualmente di mano in mano, ma viene conservata con cura. Percio' quella Beretta e' rimasta con i sardi coinvolti nel fattaccio del '68. Nessuno ha mai spiegato come sia finita fuori da quel gruppo. Altro indizio: dallo studio per la polizia italiana fatto dal famoso Behavioral Science Unit dell'Fbi, a Quantico, risulta assolutamente chiaro che il "MOSTRO DI FIRENZE" e' un tipo di serial killer che agisce da solo, per gratificare i suoi perversi impulsi sessuali. La teoria della setta satanica e' basata sulla colpevolezza di Pacciani: ma lui non era il MOSTRO, e noi lo dimostriamo in Dolci Colline di Sangue. Sono delitti troppo orribili per esser stati commessi da un uomo solo, così deve essere invocato il diavolo: quindi, la pista satanica. Insomma, e' una teoria per la quale si cercano indizi senza trovarne.
Quando ha sentito parlare per la prima volta, del «MOSTRO DI FIRENZE»?
Sei anni fa, quando Spezi mi ha raccontato la storia.
Come nasce la vostra amicizia?
Facevo ricerche per un giallo ambientato a FIRENZE e avevo bisogno di informazioni su polizia e carabinieri. Un amico me lo indicò come un esperto di operazioni investigative.
Come avete lavorato «a quattro mani»?
Mario ha scritto la maggior parte del libro, io qualche capitolo. Leggevo ciò che lui scriveva e davo il mio parere. Ora, lo sto riscrivendo e sarà un pò diverso perchè i lettori americani ignorano la storia.
Il magistrato afferma che lei, «insieme a Spezi e Zaccaria», e' andato in una villa presso Firenze dove avrebbero dovuto esserci prove che avrebbero condotto al «vero» colpevole. Che cosa l'ha colpita di più, in quel sopralluogo?
Chiariamo subito che l'accusa che noi avremmo messo prove per incastrare qualcuno, e' falsa. Mario e Zaccaria avevano informazioni che alcuni sardi frequentavano il terreno della villa, negli anni ottanta. Sono stato io a proporre un sopralluogo, per curiosità. Non abbiamo visitato la proprietà, ce ne siamo andati dopo dieci minuti. Mario ha poi deciso di fare una denuncia perchè fosse verificata l'ipotesi dell'esistenza di indizi o prove nei terreni della villa. Ha fatto una cosa giusta, ogni cittadino dovrebbe farla. Per ironia, la denuncia e' diventata una prova contro di noi. Devo aggiungere che non abbiamo fatto niente illegale: la villa era aperta al pubblico, spalancato il cancello, c'erano una rivendita di vino e olio, un parcheggio. Abbiamo parlato con una signora, visto la villa e ce ne siamo andati. Tutto qui. E' una villa grande e bella, ma normale: non mi ha interessato molto e, ora, non credo che sia collegata con la pista sarda, penso piuttosto che le informazioni fossero false.
Quando l'ha interrogata, che cosa pensa che cercasse il magistrato?
Non lo so, ritengo la verità. Ma ho l'impressione che fosse convinto che siamo due criminali, perchè Mario è molto critico sull'inchiesta, ma è inconcepibile, assurdo ritenerlo complice di un delitto e, magari, mandante di altri sedici: lo conosco bene, e' un uomo di grande fede, crede in Dio, nella legge e ama molto il suo Paese. Il mio interrogatorio, poi, è stato molto sgradevole. Non parlo correntemente l'italiano: non avevo nè interprete nè avvocato. Il dottor Mignini era convinto che mentissi. Ho avuto paura per la mia famiglia e i miei bambini, che erano con me per una vacanza in Italia.
I suoi libri riscuotono grande successo negli Stati Uniti e all'estero, Italia compresa: sono frutto di fantasia, allora, che cosa l'ha convinta ad occuparsi della storia del «MOSTRO DI FIRENZE», terreno gia' ampiamente battuto?
Faccio anche il giornalista. Ho scritto quattro libri di saggi e collaboro alle riviste The New Yorker e The National Geographic: la storia del MOSTRO non e' estranea alle mie competenze. Se il terreno e' stato troppo battuto vuol dire che la verità è stata sepolta. E noi vogliamo scoprirla.
C'e' un grande romanzo che rappresenti un caso paragonabile a quello del «MOSTRO DI FIRENZE»?
Due: The Silence of the Lambs, il cui titolo e' stato tradotto in italiano ne Il silenzio degli innocenti, e Hannibal di Thomas Harris.
Quali nuovi indizi, prove, idee ci sono in Dolci Colline?
Bisogna leggerlo. L'argomento e le prove sono molto complicati.
Rif.1 - La Stampa - 18 aprile 2006
Premetto che ho avuto una brutta sensazione, come se Mario fosse detestato e lo volessero disperatamente mettere in prigione. Per quanto mi riguarda, e' come se fossi caduto in un mio giallo, "La danza della Morte", nel quale racconto una situazione simile. Prima dell'arresto, Mario mi aveva confidato di sentirsi come dentro un film tratto da Kafka, interpretato da Jerry Lewis e Dean Martin. Ora mi domando: possibile che un tale abuso di potere accada in un Paese che ha regalato al mondo Dante, il Rinascimento, Galileo e Verdi? Che e' quasi sinonimo della parola civilta'? Io mi vergogno parecchio per quello che il mio Paese fa a Guantanamo, in dispregio dei diritti umani: ma la persecuzione di un giornalista che compie il suo dovere non e' dissimile, e cio' mi rende molto triste.
Da sempre Spezi sostiene che la pista giusta per i delitti del «MOSTRO» sia quella «sarda», emersa dopo il primo duplice omicidio, estate 1968, quindi scolorita. Che cosa l'ha convinta a seguire la sua teoria?
Il fatto che, secondo me, sia stata chiusa prematuramente. Parliamo di un indizio fondamentale: la pistola. Gli inquirenti sanno bene, o dovrebbero sapere, che in un "delitto di clan", commesso da un gruppo, un'arma non passa casualmente di mano in mano, ma viene conservata con cura. Percio' quella Beretta e' rimasta con i sardi coinvolti nel fattaccio del '68. Nessuno ha mai spiegato come sia finita fuori da quel gruppo. Altro indizio: dallo studio per la polizia italiana fatto dal famoso Behavioral Science Unit dell'Fbi, a Quantico, risulta assolutamente chiaro che il "MOSTRO DI FIRENZE" e' un tipo di serial killer che agisce da solo, per gratificare i suoi perversi impulsi sessuali. La teoria della setta satanica e' basata sulla colpevolezza di Pacciani: ma lui non era il MOSTRO, e noi lo dimostriamo in Dolci Colline di Sangue. Sono delitti troppo orribili per esser stati commessi da un uomo solo, così deve essere invocato il diavolo: quindi, la pista satanica. Insomma, e' una teoria per la quale si cercano indizi senza trovarne.
Quando ha sentito parlare per la prima volta, del «MOSTRO DI FIRENZE»?
Sei anni fa, quando Spezi mi ha raccontato la storia.
Come nasce la vostra amicizia?
Facevo ricerche per un giallo ambientato a FIRENZE e avevo bisogno di informazioni su polizia e carabinieri. Un amico me lo indicò come un esperto di operazioni investigative.
Come avete lavorato «a quattro mani»?
Mario ha scritto la maggior parte del libro, io qualche capitolo. Leggevo ciò che lui scriveva e davo il mio parere. Ora, lo sto riscrivendo e sarà un pò diverso perchè i lettori americani ignorano la storia.
Il magistrato afferma che lei, «insieme a Spezi e Zaccaria», e' andato in una villa presso Firenze dove avrebbero dovuto esserci prove che avrebbero condotto al «vero» colpevole. Che cosa l'ha colpita di più, in quel sopralluogo?
Chiariamo subito che l'accusa che noi avremmo messo prove per incastrare qualcuno, e' falsa. Mario e Zaccaria avevano informazioni che alcuni sardi frequentavano il terreno della villa, negli anni ottanta. Sono stato io a proporre un sopralluogo, per curiosità. Non abbiamo visitato la proprietà, ce ne siamo andati dopo dieci minuti. Mario ha poi deciso di fare una denuncia perchè fosse verificata l'ipotesi dell'esistenza di indizi o prove nei terreni della villa. Ha fatto una cosa giusta, ogni cittadino dovrebbe farla. Per ironia, la denuncia e' diventata una prova contro di noi. Devo aggiungere che non abbiamo fatto niente illegale: la villa era aperta al pubblico, spalancato il cancello, c'erano una rivendita di vino e olio, un parcheggio. Abbiamo parlato con una signora, visto la villa e ce ne siamo andati. Tutto qui. E' una villa grande e bella, ma normale: non mi ha interessato molto e, ora, non credo che sia collegata con la pista sarda, penso piuttosto che le informazioni fossero false.
Quando l'ha interrogata, che cosa pensa che cercasse il magistrato?
Non lo so, ritengo la verità. Ma ho l'impressione che fosse convinto che siamo due criminali, perchè Mario è molto critico sull'inchiesta, ma è inconcepibile, assurdo ritenerlo complice di un delitto e, magari, mandante di altri sedici: lo conosco bene, e' un uomo di grande fede, crede in Dio, nella legge e ama molto il suo Paese. Il mio interrogatorio, poi, è stato molto sgradevole. Non parlo correntemente l'italiano: non avevo nè interprete nè avvocato. Il dottor Mignini era convinto che mentissi. Ho avuto paura per la mia famiglia e i miei bambini, che erano con me per una vacanza in Italia.
I suoi libri riscuotono grande successo negli Stati Uniti e all'estero, Italia compresa: sono frutto di fantasia, allora, che cosa l'ha convinta ad occuparsi della storia del «MOSTRO DI FIRENZE», terreno gia' ampiamente battuto?
Faccio anche il giornalista. Ho scritto quattro libri di saggi e collaboro alle riviste The New Yorker e The National Geographic: la storia del MOSTRO non e' estranea alle mie competenze. Se il terreno e' stato troppo battuto vuol dire che la verità è stata sepolta. E noi vogliamo scoprirla.
C'e' un grande romanzo che rappresenti un caso paragonabile a quello del «MOSTRO DI FIRENZE»?
Due: The Silence of the Lambs, il cui titolo e' stato tradotto in italiano ne Il silenzio degli innocenti, e Hannibal di Thomas Harris.
Quali nuovi indizi, prove, idee ci sono in Dolci Colline?
Bisogna leggerlo. L'argomento e le prove sono molto complicati.
Rif.1 - La Stampa - 18 aprile 2006
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