La giornalista Cristina Orsini raccolse l'intervista che segue per il quotidiano Il Tirreno all'uscita del libro "Il mostro di Firenze" edito da Nutrimenti. Alessandro Cecioni, autore insieme a Gianluca Monastra del libro, lo descrive come un vademecum sulla vicenda: "Un vademecum che si legge come un thriller perchè thriller è la vicenda. E poi a 34 anni dal primo degli otto duplici delitti, secondo noi, serviva riunire in un unico libro tutti i filoni dell'indagine".
Ne avete individuati quattro.
Tutti quelli che esistono: dalla cosiddetta «Pista sarda», a Pietro Pacciani quindi gli "amici di merenda" e infine agli sviluppi sui presunti mandati partendo dal flusso dei soldi. Un'indagine tanto complessa che ha avuto anche a un ricambio generazionale: quello dei cronisti che la seguivano. Ed è per questo che il libro è stato fatto a quattro mani: se un gruppo di giornalisti ha seguito la storia dei delitti, quello successivo ha invece lavorato sulle indagini. Non è una questione anagrafica ma di approccio al lavoro.
Che però ha seguito un filo più o meno omogeneo tanto che oggi, si ritorna a parlare di pista sarda. E' singolare che accada tredici anni dopo la sentenza del giudice Mario Rotella.
Che esista una pista sarda è innegabile. E' un dato oggettivo. Perché il delitto del 1968, il primo, funziona solo se a eseguirlo sono stati più complici: l'esecutore materiale assieme a uno o più persone. Come ha sempre detto Stefano Mele. Peccato che sia stato l'unico condannato per quel delitto. E ha una sua ragion d'essere per altre considerazioni.
Quali?
Per esempio il passaggio della pistola: chi ha usato la calibro 22 a Castelletti di Signa deve averla ceduta a altri. E assieme deve aver passato anche le scatole di proiettili. Uno strano modo d'agire. Non solo. Uno degli indiziati dei delitti, parlando fuori verbale con i carabinieri che gli chiedevano cose ne avrebbe fatto lui se avesse avuto un'arma che aveva già ucciso, rispose una cosa di estremo buon senso: "Me la sarie tenuta o l'avrei distrutta". E difficile far girare un'arma così rischiosa.
E quindi anche secondo te, la pista più plausibile resta la prima, l'originale.
Credo che qualsiasi tipo di impostazione di indagini non possa prescindere dal 1968 e dal clan dei sardi.
Ce n'è una più giusta?
Forse è quella che riuscirà a trovare nei gangli di questa inchiesta piena di errori, contaminazioni e depistaggi, il filone che sviluppi e leghi tutto. Solo a quel punto l'indagine funzionerà.
Si dice che Salvatore Vinci possa essere ancora vivo. Ci credi?
Sì, certo, perché no?
E' lui il «mostro»?
Questo non si può sapere, ma era comunque un bell'indiziato.
Rif.1 - Il Tirreno - 11 aprile 2002 pag.1
Ne avete individuati quattro.
Tutti quelli che esistono: dalla cosiddetta «Pista sarda», a Pietro Pacciani quindi gli "amici di merenda" e infine agli sviluppi sui presunti mandati partendo dal flusso dei soldi. Un'indagine tanto complessa che ha avuto anche a un ricambio generazionale: quello dei cronisti che la seguivano. Ed è per questo che il libro è stato fatto a quattro mani: se un gruppo di giornalisti ha seguito la storia dei delitti, quello successivo ha invece lavorato sulle indagini. Non è una questione anagrafica ma di approccio al lavoro.
Che però ha seguito un filo più o meno omogeneo tanto che oggi, si ritorna a parlare di pista sarda. E' singolare che accada tredici anni dopo la sentenza del giudice Mario Rotella.
Che esista una pista sarda è innegabile. E' un dato oggettivo. Perché il delitto del 1968, il primo, funziona solo se a eseguirlo sono stati più complici: l'esecutore materiale assieme a uno o più persone. Come ha sempre detto Stefano Mele. Peccato che sia stato l'unico condannato per quel delitto. E ha una sua ragion d'essere per altre considerazioni.
Quali?
Per esempio il passaggio della pistola: chi ha usato la calibro 22 a Castelletti di Signa deve averla ceduta a altri. E assieme deve aver passato anche le scatole di proiettili. Uno strano modo d'agire. Non solo. Uno degli indiziati dei delitti, parlando fuori verbale con i carabinieri che gli chiedevano cose ne avrebbe fatto lui se avesse avuto un'arma che aveva già ucciso, rispose una cosa di estremo buon senso: "Me la sarie tenuta o l'avrei distrutta". E difficile far girare un'arma così rischiosa.
E quindi anche secondo te, la pista più plausibile resta la prima, l'originale.
Credo che qualsiasi tipo di impostazione di indagini non possa prescindere dal 1968 e dal clan dei sardi.
Ce n'è una più giusta?
Forse è quella che riuscirà a trovare nei gangli di questa inchiesta piena di errori, contaminazioni e depistaggi, il filone che sviluppi e leghi tutto. Solo a quel punto l'indagine funzionerà.
Si dice che Salvatore Vinci possa essere ancora vivo. Ci credi?
Sì, certo, perché no?
E' lui il «mostro»?
Questo non si può sapere, ma era comunque un bell'indiziato.
Rif.1 - Il Tirreno - 11 aprile 2002 pag.1
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