mercoledì 22 luglio 2015

Processo contro Mario Vanni +3 - Udienza del 3 marzo 1998 - Prima parte

Presidente: C'è Lotti? Ah, eccolo. Sì. Vanni presente. Il difensore presente. Mi sostituisce anche gli altri che mancano. Fenies... Ah no, c'è, c'è.
Avvocato Fenies: (voce fuori microfono)
Presidente: Scusi, eh.
Avvocato Fenies: Ho cambiato posto.
Presidente: Io guardavo lì.
Avvocato Fenies: Ho lasciato...
Presidente: Bene, allora ci siamo tutti. Prego, avvocato Mazzeo, può iniziare, grazie. Quando vuole può interrompere, me lo dice. Bene.
Avvocato Mazzeo: Grazie, Presidente. Signor Presidente, Signori della Corte, nella lunga esposizione del rappresentante della pubblica accusa, tra le tantissime cose che non ho condiviso ce n'è una che mi ha addirittura turbato. Ed è stata il continuo, insistito, iterato richiamo allo stato d'animo che voi dovreste avere nel momento in cui vi accingete a giudicare. Ricorrenti sono state le parole del Pubblico Ministero: "voi dovete essere tranquilli", "voi dovete essere sereni", "qui c'è una confessione", "voi dovete soltanto" - "soltanto", l'avverbio lo ha usato il rappresentante dell'accusa - "dovete soltanto verificare la credibilità del dichiarante". Beh, io non credo che lo stato d'animo, la condizione di spirito di un Magistrato, di un Giudice, che si accinge a prendere in considerazione opzioni di pena come quelle che vi sono state richieste con riferimento al mio assistito debba essere appunto di tranquillità, di serenità. E in questa mia convinzione sono confortato proprio da lei, Presidente, che in un'udienza passata, quando gli animi si erano un po' accalorati nella foga della difesa delle rispettive tesi, ha rivendicato al Giudice – lei lo ricorderà - la sofferenza, il dolore. Il mio vecchio maestro diceva: il processo è dolore, il processo è già la pena per certi versi, anche per il Giudice; il dolore per il giudicante; la sofferenza della ricerca della verità reale. Lo dico per i Giudici non togati, noi sappiamo che, in base alla nostra Carta Costituzionale, le uniche due regole di giudizio a cui deve fondamentalmente attenersi il- Magistrato sono: il suo libero convincimento, bilanciato da una seria e logica motivazione, e la ricerca della verità reale al di là di ogni apparenza, anche la più sfacciata. Dice il Pubblico Ministero, rivolto a voi, Signori Giudici, pagina 20 della sua requisitoria: "Non dobbiamo affannarci a costruire" - non dobbiamo affannarci - "a costruire, a dedurre, a vedere, a capire." "Non dobbiamo affannarci a capire"? "No" - dice - "la situazione è chiara, è oggettivamente chiara. Dobbiamo solo" - eccolo qua 1'avverbio - "verificarla, riscontrarla." Beh, io ho molta comprensione, soprattutto per i Giudici popolari, per i signori con la fascia tricolore a tracolla, perché si tratta di persone che non hanno scelto nella loro vita di fare un lavoro che significa decidere il destino delle persone. Solo due tra voi hanno scelto questa professione e io sinceramente non li invidio. Io non ne sarei capace. Ma gli altri hanno scelto di fare altri lavori, non questo che è più terribile di tutti, è il più difficile di tutti. E si ritrovano qui da circa un anno, magari si saranno anche chiesti in qualche momento, specie in questi ultimi giorni in cui c'è stata questa raffica di argomentazioni giuridiche da parte dei vari difensori, si saranno chiesti 'ma io che ci sto a fare qui? Ma perché sono stato chiamato io? Ma perché il Legislatore ha pensato, ha immaginato, ha voluto che per i delitti più gravi, che offendono particolarmente la comunità, ci debbano essere dei Giudici non professionisti, dei Giudici che non hanno studiato diritto, che non hanno la laurea in Legge. Che di fronte a concetti come "riscontro oggettivo", "prova diretta", "prova indiretta", "confessione", "chiamata di correo", "indizio", "prova", sono persone che devono fare uno sforzo enorme di comprensione. Sarebbe come se a me mettessero in mano un bisturi e dicessero: 'vai, fai un'operazione chirurgica'. No, signori, io sono convinto, dopo aver pensato come voi nei primi anni della mia professione, in qualche misura, sono convinto invece che la vostra, qui, sia una presenza decisiva, perché voi rappresentate - come del resto lo rappresentano ovviamente, ancor più, e comunque allo stesso modo i Giudici togati - l'esigenza di buonsenso. Del buonsenso comune; quello non si impara a scuola. È quella cosa che aiuta a distinguere il vero dal falso nella vita quotidiana, di tutti i giorni, di ciascuno di noi. Il Legislatore ha voluto delle menti libere, vergini. Libere da che cosa? Da architetture concettuali, da tesi culturali, di cui a volte chi, compreso chi vi parla, diciamo ha studiato invece queste cose, si fa prendere, si fa rapire e magari perde di vista la verità. Eccola qui la necessità anche della vostra presenza qui. E quindi, quanto lontana dalla vostra funzione altissima, difficilissima, nobilissima, è l'invocazione del Pubblico Ministero: "non dobbiamo affannarci a capire." Voi siete qui esattamente per il contrario, la vostra funzione è proprio quella di capire, invece. Al di là di ogni possibile dubbio - come si dice - al di là di ogni evidenza più sfacciata. Per un'esigenza morale, prima ancora che giuridica. Perché decidere del destino delle persone non è una cosa... è la cosa più terribile, come ho detto prima, che possa capitare. Perché voi non siete dei notai che dovete ratificare l'operato degli inquirenti, che dovete dire - come dice il notaio - la firma è autentica. Il vostro operato questa volta, a differenza di tutte le volte passate, di ciò do atto al Pubblico Ministero che l'ha riconosciuto, è stato un operato immune da vizi. Siete stati bravissimi, vi autocelebriamo. Finalmente avete scoperto la verità. No, non siete chiamati qui per questo. Voi siete chiamati qui per giudicare Mario Vanni, che è tutta un'altra cosa. Non per fare quindi i notai, ma per fare i Giudici, perbacco! E, allora, quando si dice: "non dovete affannarvi a capire, la situazione è chiara, c'è una confessione”, si introduce un primo concetto giuridico e del quale bisogna parlare. Perché io ho avuto la sensazione, durante la lunga, articolata, insistita, ripetuta nei concetti, come è giusto da parte del Pubblico Ministero, che egli avesse in mente più - in buona fede, ovviamente -più il concetto civilistico di confessione, che il concetto penalistico. E mi intendono i Giudici togati. Nel diritto civile la confessione, dice la legge, è una prova legale. Cioè a dire è una prova la cui efficacia è precostituita dalla legge. Cioè una delle parti in un giudizio civile - una causa, un risarcimento danni, ereditaria, quello che vi pare - dichiara qualcosa contro se stesso e il Giudice risolve in questo caso la lite, risolve la controversia; prova legale, la cui efficacia è precostituita dalla legge. Ma qui siamo in un campo completamente diverso e se c'è una prova, un mezzo di prova che è veramente delicatissimo - e queste sono parole della Suprema Corte di Cassazione - mezzo di prova delicatissimo è proprio la confessione. Io richiamerò moltissimo la Corte Suprema di Cassazione, perché è il Giudice dei Giudici; perché è il Giudice che giudicherà, molto verosimilmente, la vostra sentenza e che dirà se la vostra sentenza è conforme a legge, oppure se la vostra sentenza è contro la legge, ha violato la legge. E la linea di demarcazione tra contro la legge o secondo la legge è rappresentata dall'esatta applicazione di questi concetti giuridici, accessibilissimi a chi vuole fare esercizio di buonsenso comune, cioè a chi vuole lavorare. E quindi, dicevo, la confessione non è quella specie di meccanismo automatico o semiautomatico che vi ha descritto il Pubblico Ministero. È un mezzo di prova delicatissimo, perché le motivazioni che possono indurre, in un giudizio penale, una persona ad andare in gualche modo contro natura, accusandosi - perché 1'’istinto primordiale, naturale dell'uomo è quello di difendersi, non di accusarsi, è quello di negare le proprie responsabilità, no di ammetterle - quindi ci troviamo già di fronte a una situazione in cui, ecco, il giudizio, l'attenzione deve essere particolarmente sveglia. C'è uno che confessa. Beh, la prima regola, la prima regola vorrei dire pratica, di buonsenso comune non di giudizio positivo, è di dire: ma perché confessa questo? Chiediamoci perché. Se lo chiede molto bene, se l'è già chiesto dai tempi dei tempi il Legislatore, che ha previsto infatti nel Codice penale il reato di autocalunnia: articolo 369 del Codice penale. L'autocalunnia è la fattispecie in cui c'è un soggetto che falsamente confessa di essere colpevole di un gualche reato, falsamente. Evidentemente questa situazione è così comune, va bene, tra gli uomini, che il Legislatore l'ha previsto, questa, come figura autonoma di reato contro l'amministrazione della Giustizia. Perché chi confessa falsamente di aver commesso un reato, in pratica intralcia il libero e regolare corso della Giustizia. Perché magari distoglie l'attenzione degli inquirenti e dei Giudici dal vero colpevole. Quali sono le motivazioni che possono spingere quindi una persona a confessarsi colpevole? Ma un'esemplificazione di confessioni dovute a infermità di mente, altro squilibrio psichico, a fanatismo, ad auto ed eterosuggestione, a ragioni di lucro, a spirito di omertà. Il Guardasigilli, che commenta l'articolo che riguarda l'autocalunnia - Codice penale attuale, quello del 1930 - nella relazione ministeriale sul progetto del Codice penale dice, testuale: "Ho adoperato la parola confessione" - cioè chi confessa falsamente, autocalunnia - "riferendomi al valore formale di tale atto, che in senso tecnico non richiede punto, come indispensabile requisito, la veridicità nel diritto processuale. Infatti, la dichiarazione mediante la quale una persona afferma di essere autrice di un reato, si chiama confessione, sia vera o falsa nel suo contenuto." Noi siamo qui per stabilire se la confessione che riguarda questo processo è vera o falsa. Poi c'è la chiamata di correo, parleremo di quella. Perché se non si motiva adeguatamente, congruamente, logicamente, consequenzialmente, prendendo a base il contenuto di questa confessione, eh, beh, si può fare una sentenza sbagliata sul piano formale, oltre che sul piano sostanziale, che sarebbe ancora peggio. La Corte Suprema di Cassazione, a proposito della confessione, in una recentissima sentenza, del 1996 - 26 settembre '96, 8724, Mastro Piero - ribadisce i concetti che vi ho appena esposto e la distingue appunto dalla chiamata in correità. Perché esiste un articolo del nostro Codice di procedura penale, lo avrete già sentito, ve lo hanno nominato, è il 192, che detta alcune regole di giudizio, con riferimento alle prove in generale, alle prove dirette; agli indizi, usa il plurale perché un indizio solo comunque non basterebbe mai per la legge a fondare un giudizio di condanna; e poi distingue, tra il comma 2 e il comma 3 dell'articolo 192, la chiamata in correità dalle altre prove. 

2 commenti:

omar quatar ha detto...

peccato, la testimonianza di Mazzeo era già stata resa disponibile in video su Youtube. E' senz'altro più comodo averla come testo, ma avrei sperato in documentazione inedita dalae udienze mancanti. Dobbiamo metterci il cuore in pace?

Flanz ha detto...

Mai dire mai. Ciao. F.