Il 22 gennaio 2004 il quotidiano La Repubblica pubblicò l'intervista che segue al dott. Michele Giuttari.
Perché si è messo a scrivere?
L'idea mi è venuta nel '98 dopo la sentenza di condanna ai compagni di merende. Sentii l'impulso molto forte di raccontare quella vicenda e soprattutto il metodo investigativo che avevamo seguito per concretizzare l'ipotesi che quei delitti fossero opera non di un killer solitario, ma di un gruppo di assassini.
Allora scrisse Compagni di sangue.
Poi scoprii la passione della scrittura. Ebbi delle vicissitudini, mi assentai dal lavoro e mi rifugiai nella scrittura. E meno male, fu una valvola di sfogo.
Un'operazione terapeutica?
In un certo senso. Nella vita di un poliziotto spesso si attraversano momenti difficili, che ti segnano. Se non si riescono a superare può capitare di tutto. La scrittura mi ha aiutato. Così continuai con un altro libro scritto di getto e poi quest'ultimo, Scarabeo.
In Scarabeo c'è una parte tecnica in cui parla il poliziotto, l'uomo concreto che sa come funzionano le indagini, l'importanza degli informatori, la prudenza a collegare fatti senza prove. E nello stesso tempo c'è sullo sfondo la vicenda del Mostro che occupa la sua vita da tanto tempo. Difficile distinguere la realtà dalla finzione.
Il Giuttari investigatore usa molto il cervello, è un poliziotto come nella vita reale. Ma è anche chiaro che l'esperienza del Mostro mi ha segnato e mi segna ancora. Lo scrittore, anche se mantiene i riferimenti sullo sfondo, è costretto a citarli.
Nel libro lei descrive Firenze parlando della sua bellezza, della sua storia e poi raconta di quei portoni chiusi dietro ai quali sono nati delitti, intrighi di potere per secoli. Esiste davvero questo lato oscuro della città o è un artifricio letterario?
Questo è un volto di Firenze che, prima che come scrittore, mi ha colpito come investigatore. Questa è una città che anche prima del Mostro ha conosciuto delitti efferati. Ma allora c'è un volto nascosto, l'Arno scorrendo si porta via le acque torbide ma non i misteri. L'investigatore si chiede: perché?
Si è dato una risposta?
Questa è una domanda troppo difficile.
Lei fa dire al suo protagonista che ogni delitto irrisolto resta nella memoria della città per sempre. E' davvero così?
La gente di Firenze, la gente normale onesta, sa che c'è un assassino, o più di uno, in libertà e questo pensiero li segna. Questo il poliziotto deve pensare. Risolvere un delitto è un dovere verso la comunità, l'investigatore deve amare fortemente la verità.
Non ha mai paura che il suo lavoro sia un'ossessione, di diventare paranoico?
No. Io sono un uomo molto concreto, che sta con i piedi per terra, che guarda sempre i fatti. Io mi conosco benissimo, finora non ho mai avuto segnali in questo senso.
Visto che lei è un uomo concreto, gli ultimi sviluppi dell'indagine sono concreti?
Le rispondo con atti che sono pubblici. I giudici che condannarono Pacciani e i compagni di merende scrivono che sulla base di quel processo sono emersi elementi che portano verso la presenza di un mandante. E quindi chiedono alla Procura di indagare.
Si sente vicino alla verità?
Il motore che muove un investigatore deve essere un forte amore per la verità. E io ce l'ho. Per la verità piena, non la mezza verità.
Rif.1 - La Repubblica 22 gennaio 2004
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