"Le battute fra virgolette sono autentiche, si riferiscono a episodi privati realmente accaduti, così come mi sono stati raccontati da Francesca Spagnoli (vedova Narducci n.d.r.)." Diego Cugia nella postfazione a Un amore all'inferno
Segue dalla terza parte.
"Qui non si tratta di ingordigia degli eredi, ma di cancellazione della mia vita dalle loro. È un ritratto di famiglia dal quale viene sforbiciata una faccia. Pierluca, al termine di una triste resa dei conti, mi contestò: "Tu non sei una Narducci!". Alla commemorazione funebre suo padre mi scansò con una manata e uscì dalla sala imprecando. Un mese dopo, casualmente, incrociai la madre di fronte alla tomba: dette in escandescenze. La sorella, vedendomi posteggiare nel centro di Perugia, quando mi allontanai prese a calci la mia macchina. Così raccontò il fidanzato. In qualunque salotto li invitassero, mi riferivano che loro mettevano sempre le mani avanti: "Non c'è Francesca, vero? Altrimenti non veniamo''. Questo nei matrimoni visitati dalla morte non succede."
"La chiesa era Santa Maria in Colle. Il parroco, don Pietro, tenne un'omelia struggente. Della folla strabocchevole mi ricordo il silenzio spaventoso. Mamma mi sorreggeva, ero sotto shock, annebbiata dai tranquillanti, lottavo per non svenire. All'ingresso avevo declinato l'invito di mio suocero a sederci tutti sulla stessa panca. Provavo un disagio indefinibile, il presentimento della discordia mi avvolgeva come i fumi dell'incenso. Ero la vedova, già non contavo niente. Quattro infermiere circondarono la bara. Sembravano gendarmi. Notai che il mio cuscino di fiori era stato relegato davanti al feretro sul quale troneggiava la composizione floreale della famiglia Narducci. Poi un estraneo depositò un gigantesco fascio di rose rosse prive del classico nastro viola con la firma. Chiesi chi le avesse mandate. Nessuno rispose."
"La salma di Francesco fu inumata temporaneamente in una cappella di amici di famiglia: i Servadio. Sulla targhetta di ottone avvitata sul cofano di zinco della bara c'era scritto "9 ottobre 1985".
"Il 6 giugno 2002, all'Obitorio Comunale di Pavia, mi ritrovai di fronte alla bara sigillata di mio marito. I sensi di colpa mi saltavano addosso come una muta di cani randagi. ''Chi ero io per disturbare il suo sonno?'' Inoltre ero terrorizzata per quello che avremmo potuto trovare. Non tanto la polvere, il teschio, gli ovvii risvolti macabri di una riesumazione... Il mio spavento, infatti, si riferiva al lato oscuro della vita non a quello della morte. Il PM Mignini con la sua pipa da saggio, e l'avvocato Crisi mi avevano preparata a un ventaglio di eventualità una più agghiacciante dell'altra: la bara poteva non essere abitata da nessuno; oppure occupata da un altro. Francesco forse era ancora vivo, poteva avere cambiato nome e connotati, in Sudamerica; oppure era morto laggiù, ma in tempi più recenti, e il suo corpo mi sarebbe apparso quasi quello di un vivo; o infine nella bara come sostenevano i Narducci e il loro avvocato c'era proprio il corpo abnorme ripescato nel lago domenica 13 ottobre 1985."
"Dai capelli sottoposti ad analisi chimica emerse una notizia per me così triste che non riesco neppure a commentarla: Francesco assumeva dosi massicce di meperidina, un oppiaceo che un tempo si usava in ginecologia per alleviare il dolore. Si drogava da medico, ma si drogava. In particolare negli ultimi sei, sette mesi."
Rif.1 - Un amore all'inferno
Segue dalla terza parte.
"Qui non si tratta di ingordigia degli eredi, ma di cancellazione della mia vita dalle loro. È un ritratto di famiglia dal quale viene sforbiciata una faccia. Pierluca, al termine di una triste resa dei conti, mi contestò: "Tu non sei una Narducci!". Alla commemorazione funebre suo padre mi scansò con una manata e uscì dalla sala imprecando. Un mese dopo, casualmente, incrociai la madre di fronte alla tomba: dette in escandescenze. La sorella, vedendomi posteggiare nel centro di Perugia, quando mi allontanai prese a calci la mia macchina. Così raccontò il fidanzato. In qualunque salotto li invitassero, mi riferivano che loro mettevano sempre le mani avanti: "Non c'è Francesca, vero? Altrimenti non veniamo''. Questo nei matrimoni visitati dalla morte non succede."
"La chiesa era Santa Maria in Colle. Il parroco, don Pietro, tenne un'omelia struggente. Della folla strabocchevole mi ricordo il silenzio spaventoso. Mamma mi sorreggeva, ero sotto shock, annebbiata dai tranquillanti, lottavo per non svenire. All'ingresso avevo declinato l'invito di mio suocero a sederci tutti sulla stessa panca. Provavo un disagio indefinibile, il presentimento della discordia mi avvolgeva come i fumi dell'incenso. Ero la vedova, già non contavo niente. Quattro infermiere circondarono la bara. Sembravano gendarmi. Notai che il mio cuscino di fiori era stato relegato davanti al feretro sul quale troneggiava la composizione floreale della famiglia Narducci. Poi un estraneo depositò un gigantesco fascio di rose rosse prive del classico nastro viola con la firma. Chiesi chi le avesse mandate. Nessuno rispose."
"La salma di Francesco fu inumata temporaneamente in una cappella di amici di famiglia: i Servadio. Sulla targhetta di ottone avvitata sul cofano di zinco della bara c'era scritto "9 ottobre 1985".
"Il 6 giugno 2002, all'Obitorio Comunale di Pavia, mi ritrovai di fronte alla bara sigillata di mio marito. I sensi di colpa mi saltavano addosso come una muta di cani randagi. ''Chi ero io per disturbare il suo sonno?'' Inoltre ero terrorizzata per quello che avremmo potuto trovare. Non tanto la polvere, il teschio, gli ovvii risvolti macabri di una riesumazione... Il mio spavento, infatti, si riferiva al lato oscuro della vita non a quello della morte. Il PM Mignini con la sua pipa da saggio, e l'avvocato Crisi mi avevano preparata a un ventaglio di eventualità una più agghiacciante dell'altra: la bara poteva non essere abitata da nessuno; oppure occupata da un altro. Francesco forse era ancora vivo, poteva avere cambiato nome e connotati, in Sudamerica; oppure era morto laggiù, ma in tempi più recenti, e il suo corpo mi sarebbe apparso quasi quello di un vivo; o infine nella bara come sostenevano i Narducci e il loro avvocato c'era proprio il corpo abnorme ripescato nel lago domenica 13 ottobre 1985."
"Dai capelli sottoposti ad analisi chimica emerse una notizia per me così triste che non riesco neppure a commentarla: Francesco assumeva dosi massicce di meperidina, un oppiaceo che un tempo si usava in ginecologia per alleviare il dolore. Si drogava da medico, ma si drogava. In particolare negli ultimi sei, sette mesi."
Rif.1 - Un amore all'inferno
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