Introduzione
di E. Oltremari (dr.oltremari@gmail.com)
Trattare di una catena di omicidi lunga 17 anni e ad ormai 50 anni dal primo delitto, su cui sono state scritte ben più di ottanta monografie, innumerevoli saggi e tesi di laurea, incalcolabili righe di articoli di giornali, decine di blog e siti internet, e che ha dato voce a centinaia di esperti o sedicenti tali, presenta ben più di un problema.
Primo fra questi, mascherato da punto di forza in quanto bacino di fonti inesauribile, è che questo mare magnum di informazioni, cristallizzi nell’immaginario collettivo convinzioni e concetti inerenti alla vicenda del maniaco delle coppiette fino ad ergerli come rocce adamantine insormontabili. Questa annosa altra faccia della medaglia rischia, quindi, di adombrare con le sue alte e fitte fronde ciò che si nasconde dietro di queste, lasciandolo stagnare senza essere più analizzato o approfondito. Creando poi quel silente senso di colpa e timore percepito ogni qual volta la propria curiosità si spinge a tal punto di farsi strada tra la boscaglia, scostando i rami e suscitando i conseguenti rimproveri di chi quelle fronde le aveva piantate e curate ogni anno.
In una disanima sia storica che criminologica come questa, ove i punti certi potrebbero contarsi sulle dita di una mano, siamo davvero sicuri che ci sia permesso il lusso di identificare un fatto come certo, sicuro, incontrovertibile. Sicuri di voler rischiare che una presunta certezza acquisti la forza coriacea del luogo comune (ben più difficile da scardinare). Abbiamo l’ardire di farci fieri portatori di una verità così faticosamente agognata e non raggiunta neanche da una sentenza definitiva figlia di tre gradi di processo (e parente vicina di altre tre) ma mutilata dell’arto della chiarezza e completezza. Vogliamo davvero rimanere colpevoli schiavi di una accidiosa miopia senza azzardare la fatica di impugnare gli occhiali e provare a guardare oltre, lì dove non è stato ancora osservato.
Cerchiamo faticosamente da anni nuovi orizzonti quando forse abbiamo solo bisogno di occhi diversi - parafrasando Nietzsche, nella speranza non me ne voglia - con cui guardare quel panorama che troppo spesso ci è stato proposto seguendo le stesse linee ed i medesimi confini.
In tutti questi anni il volto dell’omicida, del Mostro, si è pericolosamente avvicinato ad una figura quasi mistica, da idolatrare. L’assassino di coppiette dai mille volti, dai mille nomi, scaltro, irraggiungibile ed inafferrabile, come quelli dei film di Hollywood dove quando li guardi ti scopri quasi a fare il tifo per il cattivo.
È sufficiente aprire un qualsiasi forum o pagina Facebook su internet per trovarsi di fronte ad un quotidiano ringhiarsi contro su questioni inerenti alla striscia omicidiaria. Come diverse fazioni in guerra gli esponenti delle varie teorie sull’identità del Mostro di Firenze si danno battaglia senza esclusione di colpi dando vita ad un grottesco circo nero. “Filastoniani”, “Pista Sarda”, “Giuttariani”, “Pacciani colpevole unico”, “Pista esoterica” e chi più ne ha più ne metta, tutti intenti a ripercorrere quei diciassette anni di delitti brandendo bastoni e picche verso chi non ricorda il colore della macchina delle vittime o il nome della discoteca vicino a Scandicci, o chi dice che i Sardi siano implicati nella vicenda o chi invece no, chi ancora mette in mezzo un uomo in divisa e chi una setta che ordina i delitti per compiere riti orgiastici. Stiamo oggi ancora vivendo ed assistendo a forme aggiornate 2.0 di quelle magliette “I LOVE PACCIANI”.
Tutti intenti a parlare, a dimostrare, a (tentare di) chiarire, creando quel clima confuso che lascia in ombra il vero protagonista della vicenda, che non è il Mostro - quello è fin troppo chiacchierato - ma l’uomo che si nasconde dietro il Mostro.
Perché in fondo il mostro è questo, un uomo. Con due braccia, due gambe, una testa, gli occhi e le orecchie, un passato, un lavoro, la fatica di svegliarsi presto il mattino e una bolletta da pagare. I mostri no, sono quelli delle fiabe, che si nascondono nelle grotte o sotto il letto o fra le pagine di un libro di novelle. Per stanare quei mostri ci vogliono i poteri magici e a volte non bastano neanche quelli perché i mostri sono difficili da eliminare e spesso anche quando sembrano davvero spacciati scappano via e prendono un altro nome. Così chiamando e considerando un Mostro l’assassino delle coppie sulle colline fiorentine lo poniamo su un piano della realtà distante dal nostro, più vicino a quello del mito inafferrabile che della realtà. E come lo troviamo un Mostro senza poteri magici? Semplice, non lo prendiamo.
E se invece cercassimo l’Uomo dietro il mostro? Gli uomini sì, è possibile catturarli è possibile trovarli è possibile afferrarli. Ed il nostro Uomo oltre ad essere un uomo, forse a volte ce lo dimentichiamo, è anche un assassino. E della peggior specie.
Non è il cattivo dei film avvolto dal fascino del male che respinge ed attrae. Si tratta di un vigliacco che spara nella notte a giovanissimi ragazzi in cerca di quella intimità che la casa non gli concedeva, e che l’amore gli impediva di limitare. Spara contro due corpi racchiusi dentro una vettura parcheggiata in un luogo isolato, senza alcuna possibilità di fuga. Strazia corpi di ragazzine non più alte di un metro e sessantacinque dopo averle strappate via al compagno che poco prima aveva neutralizzato sparandogli contro. Cerchiamo chi ha il timore di affrontare dei ragazzi svestiti, al buio, accecati dalla luce di una torcia.
Questo è l’uomo che cerchiamo, un assassino. E come tale merita di essere trattato.
di E. Oltremari (dr.oltremari@gmail.com)
Trattare di una catena di omicidi lunga 17 anni e ad ormai 50 anni dal primo delitto, su cui sono state scritte ben più di ottanta monografie, innumerevoli saggi e tesi di laurea, incalcolabili righe di articoli di giornali, decine di blog e siti internet, e che ha dato voce a centinaia di esperti o sedicenti tali, presenta ben più di un problema.
Primo fra questi, mascherato da punto di forza in quanto bacino di fonti inesauribile, è che questo mare magnum di informazioni, cristallizzi nell’immaginario collettivo convinzioni e concetti inerenti alla vicenda del maniaco delle coppiette fino ad ergerli come rocce adamantine insormontabili. Questa annosa altra faccia della medaglia rischia, quindi, di adombrare con le sue alte e fitte fronde ciò che si nasconde dietro di queste, lasciandolo stagnare senza essere più analizzato o approfondito. Creando poi quel silente senso di colpa e timore percepito ogni qual volta la propria curiosità si spinge a tal punto di farsi strada tra la boscaglia, scostando i rami e suscitando i conseguenti rimproveri di chi quelle fronde le aveva piantate e curate ogni anno.
In una disanima sia storica che criminologica come questa, ove i punti certi potrebbero contarsi sulle dita di una mano, siamo davvero sicuri che ci sia permesso il lusso di identificare un fatto come certo, sicuro, incontrovertibile. Sicuri di voler rischiare che una presunta certezza acquisti la forza coriacea del luogo comune (ben più difficile da scardinare). Abbiamo l’ardire di farci fieri portatori di una verità così faticosamente agognata e non raggiunta neanche da una sentenza definitiva figlia di tre gradi di processo (e parente vicina di altre tre) ma mutilata dell’arto della chiarezza e completezza. Vogliamo davvero rimanere colpevoli schiavi di una accidiosa miopia senza azzardare la fatica di impugnare gli occhiali e provare a guardare oltre, lì dove non è stato ancora osservato.
Cerchiamo faticosamente da anni nuovi orizzonti quando forse abbiamo solo bisogno di occhi diversi - parafrasando Nietzsche, nella speranza non me ne voglia - con cui guardare quel panorama che troppo spesso ci è stato proposto seguendo le stesse linee ed i medesimi confini.
In tutti questi anni il volto dell’omicida, del Mostro, si è pericolosamente avvicinato ad una figura quasi mistica, da idolatrare. L’assassino di coppiette dai mille volti, dai mille nomi, scaltro, irraggiungibile ed inafferrabile, come quelli dei film di Hollywood dove quando li guardi ti scopri quasi a fare il tifo per il cattivo.
È sufficiente aprire un qualsiasi forum o pagina Facebook su internet per trovarsi di fronte ad un quotidiano ringhiarsi contro su questioni inerenti alla striscia omicidiaria. Come diverse fazioni in guerra gli esponenti delle varie teorie sull’identità del Mostro di Firenze si danno battaglia senza esclusione di colpi dando vita ad un grottesco circo nero. “Filastoniani”, “Pista Sarda”, “Giuttariani”, “Pacciani colpevole unico”, “Pista esoterica” e chi più ne ha più ne metta, tutti intenti a ripercorrere quei diciassette anni di delitti brandendo bastoni e picche verso chi non ricorda il colore della macchina delle vittime o il nome della discoteca vicino a Scandicci, o chi dice che i Sardi siano implicati nella vicenda o chi invece no, chi ancora mette in mezzo un uomo in divisa e chi una setta che ordina i delitti per compiere riti orgiastici. Stiamo oggi ancora vivendo ed assistendo a forme aggiornate 2.0 di quelle magliette “I LOVE PACCIANI”.
Tutti intenti a parlare, a dimostrare, a (tentare di) chiarire, creando quel clima confuso che lascia in ombra il vero protagonista della vicenda, che non è il Mostro - quello è fin troppo chiacchierato - ma l’uomo che si nasconde dietro il Mostro.
Perché in fondo il mostro è questo, un uomo. Con due braccia, due gambe, una testa, gli occhi e le orecchie, un passato, un lavoro, la fatica di svegliarsi presto il mattino e una bolletta da pagare. I mostri no, sono quelli delle fiabe, che si nascondono nelle grotte o sotto il letto o fra le pagine di un libro di novelle. Per stanare quei mostri ci vogliono i poteri magici e a volte non bastano neanche quelli perché i mostri sono difficili da eliminare e spesso anche quando sembrano davvero spacciati scappano via e prendono un altro nome. Così chiamando e considerando un Mostro l’assassino delle coppie sulle colline fiorentine lo poniamo su un piano della realtà distante dal nostro, più vicino a quello del mito inafferrabile che della realtà. E come lo troviamo un Mostro senza poteri magici? Semplice, non lo prendiamo.
E se invece cercassimo l’Uomo dietro il mostro? Gli uomini sì, è possibile catturarli è possibile trovarli è possibile afferrarli. Ed il nostro Uomo oltre ad essere un uomo, forse a volte ce lo dimentichiamo, è anche un assassino. E della peggior specie.
Non è il cattivo dei film avvolto dal fascino del male che respinge ed attrae. Si tratta di un vigliacco che spara nella notte a giovanissimi ragazzi in cerca di quella intimità che la casa non gli concedeva, e che l’amore gli impediva di limitare. Spara contro due corpi racchiusi dentro una vettura parcheggiata in un luogo isolato, senza alcuna possibilità di fuga. Strazia corpi di ragazzine non più alte di un metro e sessantacinque dopo averle strappate via al compagno che poco prima aveva neutralizzato sparandogli contro. Cerchiamo chi ha il timore di affrontare dei ragazzi svestiti, al buio, accecati dalla luce di una torcia.
Questo è l’uomo che cerchiamo, un assassino. E come tale merita di essere trattato.
Capitolo I - I duplici delitti
È necessario, seppur poco originale, iniziare col descrive i duplici omicidi attribuiti al Mostro di Firenze. Nel farlo, cercheremo, non certo senza difficoltà, al mantenerci su quanto emerge dai verbali di sopralluogo al momento del rinvenimento dei cadaveri ed al conseguente avvento sulla scena del crimine delle forze dell’ordine. Difficile risulterebbe invero addentrarsi nei meandri della vicenda processuale, soprattutto per quanto riguarda i duplici delitti del 1968, del 1982 e 1985 che hanno già meritato apposite e dovute monografie. Dopotutto lo scopo prefissatoci è questo: tentare di trovare una via da seguire rivedendo quanto ci è noto. E per farlo necessitiamo dell’occhio genuino del primo impatto.
Prima di procedere ai vari tentativi di spiegazione alle tante domande che sorgono nel descrivere la dinamica degli omicidi approfitteremo di questo capitolo per porci degli spunti di riflessione e magari scomodi quesiti su quanto accaduto in quelle tristi notti senza luna.
Mercoledì 21 Agosto 1968 - Loc. Castelletti, Signa.
L’incipit di questa storia ha il rumore squillante di un campanello di una palazzina che suona alle 2.00 di notte. Il campanello è dell’abitazione del Sig. Francesco De Felice (Via Vingone 154, Sant’Angelo a Lecore FI) mentre la mano che lo suona è di Natalino Mele, di anni 6. Affacciatosi alla finestra il Sig. De Felice vede il bambino che lo guarda dal basso verso l’alto e gli rivolge queste parole: “Aprimi la porta perché ho sonno, ed ho il babbo ammalato a letto. Dopo mi accompagni a casa perché c’è la mi’ mamma e lo zio che sono morti in macchina”.
Il Sig. De Felice carica il piccolo Mele in macchina ed insieme al vicino di casa lo portano alla Caserma dei Carabinieri di San Piero a Ponti. Da lì, seguendo le indicazioni del bambino giungono insieme al Carabiniere di turno ad un’Alfa Giulietta con l’indicatore di direzione di destra acceso e parcheggiata lungo un tratturo vicino ad un traliccio dell’alta tensione. All’interno della vettura scorgono i cadaveri di un uomo ed una donna: Barbara Locci e Antonio Lo Bianco.
La Locci è seduta sul sedile guidatore, tiene le braccia lungo il corpo e le gambe leggermente divaricate. Indossa ancora il reggiseno ed una veste a fantasia colorata alzatasi fino all’altezza dell’inguine. È scalza. Le sue scarpette da donna sono sotto il sedile passeggero. Una di queste spunta dal tappetino del sedile posteriore destro. Al collo porta una collana con l’effigie spezzata in due punti e trattenuta nella pelle. È stata attinta da quattro colpi d’arma da fuoco:
- uno in regione costale dorsale sx;
- uno in regione lombare dorsale sx;
- uno in regione epicolica dorsale sx;
- uno alla spalla sx;
I primi tre colpi presentano la stessa traiettoria dall’alto verso il basso, da sinistra verso destra ed ovviamente postero-anteriore. Il colpo alla spalla sinistra ha una traiettoria da destra verso sinistra. Ciò fa supporre, come dinamica, che la vittima femminile sia stata dapprima colpita con i primi tre colpi mentre era protesta col busto e la testa verso la vittima maschile per poi rutorare sul fianco destro, discostandosi quindi dall’amante e voltandosi verso lo sparatore così da determinare il cambiamento di traiettoria dell’ultimo colpo esploso che la colpisce alla spalla sinistra.
Il Lo Bianco giace sul sedile passeggero totalmente reclinato, per favorire il rapporto. Vi è disteso supino, ha i pantaloni sbottonati con le mani ancora intente a slacciarli. Calza la sola scarpa destra mentre l’altra è sul tappetino del lato guidatore. Alla sua destra, incastrato tra il sedile e lo sportello si trova un borsellino da donna aperto. È stato attinto da tre colpi d’arma da fuoco che hanno trapassato i tessuti molli del braccio sinistro e penetranti nel torace, con interessamento del polmone sinistro, dello stomaco e della milza. È stato poi colpito da un altro colpo d’arma da fuoco all’altezza dell’avambraccio sinistro.
Tutti e quattro i colpi esplosi sono stati sparati in rapida successione. Il decorso dei tramiti pressoché parallelo depone a favore di uno scarso movimento della vittima e della mano dello sparatore. La traiettoria è dall’alto verso il basso, da sinistra verso destra e in senso lievemente antero-posteriore. In pratica l’omicida avrebbe sparato dal lato sinistra della vettura in posizione lievemente più avanzata rispetto al fianco delle due vittime.
L’Alfa Romeo ha tutte e quattro le portiere chiuse, tranne quella posteriore destra semiaperta. Il finestrino lato guidatore è abbassato di circa 3 cm, quello posteriore destro è abbassato per metà e quello lato passeggero totalmente aperto (Sia la perizia De Fazio che il Rapporto dei Carabinieri di Firenze del 29 Agosto 1968 riferiscono del finestrino passeggero chiuso. Circostanza questa che sembra essere smentita dallo stesso fascicolo fotografico all’interno del Rapporto dei Carabinieri al cui Rilev. n. 5 si vede chiaramente il finestrino anteriore destro totalmente abbassato. Non si comprende quindi se questo sia stato aperto solo successivamente dagli inquirenti a fini investigativi o pratici ma non se ne capirebbe il senso se non quello di garantire una maggior visuale all’interno della vettura).
Verranno rinvenuti n. 5 bossoli Cal. 22: tre fuori dall’auto sul lato sinistro di questa e due all’interno della vettura tra gli schienali dei sedili ed il divanetto posteriore. Particolare questo che evidenza come l’omicida abbia esplodo almeno due degli otto colpi sparati inserendo la pistola fin dentro la vettura.
Esposti questi rilievi ci è ora possibile ipotizzare una dinamica della vicenda omicidiaria.
La coppia di amanti esce dal cinema e si dirige con la vettura del Lo Bianco a Castelletti e parcheggia lungo la strada sterrata a circa 150 mt dalla principale. Sul divanetto posteriore dorme il piccolo Natale Mele. I due amanti si cambiano di posto posiziondosi l’uomo sul lato passeggero e la donna sul lato guidatore. L’uomo abbassa il sedile ed inizia a sbottonarsi i pantaloni. Slaccia la cintura ed apre la patta mentre la donna, scalza, è china su di lui coprendogli quindi il fianco sinistro. Si può ipotizzare, dato il ritrovamento delle scarpe della donna al di sotto del sedile passeggero che lo scambio di posizione tra i due sia avvenuto senza uscire dalla vettura. La Locci si toglie le scarpe e le posizione sotto il sedile. Il Lo Bianco scivola sul sedile passeggero facendosi salire l’amante in collo ed iniziando così le prime effusioni. È possibile che il Lo Bianco abbia perso la scarpa sinistra alzando la gamba sinistra nella parte del lato guidatore, e riabbassandola una volta portata sulla parte destra. Il muratore siciliano ha poi iniziato a slacciarsi i pantaloni e la Locci si chinata su di lui.
Ora non ci è possibile sapere con esattezza chi dei due è stato per prima attinto dai colpi di pistola, ma possiamo ipotizzarlo concentrandosi sulla dinamica.
L’assassino affianca l’Alfa Romeo sul lato sinistro, striscia furtivo lungo la fiancata e giunge in prossimità dello sportello del lato guidatore. Lo sportello è presumibilmente chiuso ed il finestrino abbassato per soli 3 cm. È logico, dunque, pensare che l’omicida sia stato costretto ad aprire lo sportello del guidatore per fare fuoco.
Diversamente per quanto accadrà nei delitti successivi a questo, l’omicida non si serve di un mezzo ostativo tra lui e l’obiettivo, come il vetro di una macchina, le lamiere di un pulmino, o una tenda, ma spara direttamente verso la coppia.
Se la donna era riversa sull'uomo ma mantenendo almeno in parte la seduta sul sedile guidatore col proprio corpo avrebbe dovuto coprire il fianco sinistro dell’amante o quanto meno porvisi d’ostacolo. Difficile quindi che l’omicida sia riuscito a colpire, come ha effettivamente fatto, il braccio sinistro del Lo Bianco trapassandolo e giungendo all’emitorace sinistro se questo fosse stato coperto dalla Locci.
Da qui si aprono due diverse ipotesi:
- la prima è che ad essere colpito per prima sia stata la stessa Locci quando era riversa sul Lo Bianco. Una volta raggiunta dai tre colpi al dorso è ruotata col fianco riposizionadosi sulla sua seduta natutarale a lato guidatore e nella torsione è stata attinta dal quarto colpo alla spalla proveniente infatti da diversa angolazione. Poi l’omicida ha continuato sul Lo Bianco fermo sul sedile passeggero terrorizzato per quanto stava accadendo. Questa ipotesi presenta però qualche perplessità circa il comportamento dell’uomo. I colpi come già detto presentano lo stesso grado di angolazione e traiettoria tanto da portare alla certezza che né lo sparatore che la vittima si sono mossi durante l’azione omicidiaria. Comprensibile per quanto riguarda il primo che avendo i bersagli tra i 60 ed i 90 cm da sé non aveva motivo né necessità di spostarsi, meno per il secondo che vistosi aprire uno sportello ed esplodere quattro colpi contro l’amante vicinissima a lui non abbia tentata una minima fuga rimanendo così nella posizione in cui già era;
- la seconda prevede invece che i due non fossero abbracciati tra loro o che la Locci fosse china sù l’amante, ma ognuno sul proprio sedile di guida. Ad essere stato colpito per prima sarebbe stato quindi l'uomo sul fianco, in questa ipotesi, “libero”. La donna poi, impedita dalla figura dell’omicida a bloccarle l’uscita sulla propria portiera ha cercato riparo lontano dalla provenienza dei colpi mostrando così il dorso al allo sparatore che ha così avuto modo di esplodere gli altri colpi nel caricatore. Tre dei quali hanno colpito la Locci al al dorso nelle zone costale, lombare ed epicolica ed un quarto, una volta che si era ritratta a causa dei colpi subiti, alla spalla sinistra con angolazione diversa.
Ipotesi quest’ultima che prevederebbe la possibilità degli ultimi due colpi esplosi all’interno della vettura per avvicinarsi alla Locci voltatasi in un disperato tentativo di fuga. Nel primo caso, invece, i colpi esplosi all’interno della vettura sarebbero stati quelli verso l’inerme Lo Bianco fermo sul sedile passeggero.
Arrivati a questo punto l’omicida ha aperto lo sportello della vettura, esploso otto colpi d’arma da fuoco ed ucciso due persone che magari un piccolo grido di paura o dolore lo hanno pure lanciato. Il tutto in meno di un minuto e alla presenza all’interno dell’auto del piccolo Natalino Mele.
Ecco uno dei tanti interrogativi che ci poniamo: come ha fatto il piccolo Natale a non sentire niente e svegliarsi solo alla fine quando l’assassino stava ricomponendo i corpi delle due vittime (secondo la versione dello Stefano Mele, condannato poi per l’omicidio della moglie e l’amante) o quando i due erano già morti e non ha visto nessuno come ricorda (solo a volte) il piccolo Mele?
Dalle foto della scena del crimine si vede chiaramente quanta vicinanza vi sia tra i sedile anteriori ed il divieto posteriore. La Calibro22 che ha sparato non è certo una pistola rumorosa, ma comunque percepibile anche ad un cinquantina di metri di distanza. Eppure il piccolo Mele non si sveglia fino all’ultimo colpo sparato. Il bambino aveva i piedi praticamente all’altezza del poggiatesta reclinato del Lo Bianco, la vettura non era una utilitaria ma una piccola Giulietta parcheggiata al buio in una notte silenziosa dove vengono sparati otto colpi d’arma da fuoco dei quali almeno due all’interno della stessa. Continuare a credere che lo sventurato bambino non abbia visto niente una volta svegliatosi pare assai improbabile.
È dunque possibile che il bambino abbia visto chi sparava o comunque si sia destato dal sonno ai primi spari, ma è altrettanto possibile che l’assassino non si sia accorto della presenza del bambino all’interno della vettura?
Poniamo che l’omicida non conosca direttamente le due vittime (e quindi il figlio della Locci) e che si trovi sul luogo del delitto casualmente e che quindi gli amanti siano vittime fortuite capitate nel luogo sbagliato al momento sbagliato. In tal caso si aprono anche qui due diverse strade:
- l’omicida incontra la coppia mentre entra od esce dal cinema dove aveva trascorso la serata, non si accorge del bambino, li segue, aspetta che parcheggino la vettura nella stradina sterrata, li osserva da lontano e pian piano si avvicina alla macchina, presumibilmente da dietro di questa, uscendo così dal campo visivo della coppia seduta sui sedili anteriori. Se l’omicida, pistola alla mano, fosse davvero giunto da tergo della vettura avrebbe intravisto la coppia già giunto al finestrino posteriore sinistro e guardando attraverso questo in direzione del sedile passeggero, già reclinato, (dove avveniva la liaison) avrebbe visto che prima di questo vi era una figura che occupava sdraiato il divanetto posteriore della Giulietta. Nel caso poi che, distratto, non lo avesse visto, avrebbe potuto notarlo dal suo angolo di sparo quando mirava alle vittime una volta aperto lo sportello ed il fuoco contro di queste. La traiettoria dei proiettili depone, infatti, per una posizione anteriore rispetto ai corpi e quindi posta in modo da vedere entrambi gli amanti quasi frontalmente. In tal caso, in mezzo a questi, avrebbe visto il corpo del piccolo, rannicchiato sul sedile posteriore. Nell’ipotesi in cui invece l’omicida fosse giunto a lato della macchina, comparendo quindi dalla vegetazione, varrebbe quanto detto sopra circa l’angolazione e la visuale di tiro una volta aperto lo sportello dell’Alfa Romeo;
- l’omicida conosce, anche solo indirettamente, la coppia Locci - Lo Bianco. Il suo è un delitto premeditato, organizzato e finalizzato all’eliminazione in quel luogo ed in quel momento della coppia di amanti fedifraghi. In questo caso difficile che non sapesse della presenza del piccolo Mele all’interno dell’auto. È possibile anche che lo abbia posto come elemento determinante del suo piano mortifero senza il quale quel 21 Agosto 1968 non avrebbe colpito. Avremo dunque un omicida che decide comunque di colpire quella notte, nonostante la presenza del bambino, sicuro che niente gli sarebbe capitato in quanto un obiettivo da lui non ricercato, né desiderato: un innocente. Circa quest’ultima possibilità la tratteremo esaurientemente nei successivi approfondimenti.
Segue...
È necessario, seppur poco originale, iniziare col descrive i duplici omicidi attribuiti al Mostro di Firenze. Nel farlo, cercheremo, non certo senza difficoltà, al mantenerci su quanto emerge dai verbali di sopralluogo al momento del rinvenimento dei cadaveri ed al conseguente avvento sulla scena del crimine delle forze dell’ordine. Difficile risulterebbe invero addentrarsi nei meandri della vicenda processuale, soprattutto per quanto riguarda i duplici delitti del 1968, del 1982 e 1985 che hanno già meritato apposite e dovute monografie. Dopotutto lo scopo prefissatoci è questo: tentare di trovare una via da seguire rivedendo quanto ci è noto. E per farlo necessitiamo dell’occhio genuino del primo impatto.
Prima di procedere ai vari tentativi di spiegazione alle tante domande che sorgono nel descrivere la dinamica degli omicidi approfitteremo di questo capitolo per porci degli spunti di riflessione e magari scomodi quesiti su quanto accaduto in quelle tristi notti senza luna.
Mercoledì 21 Agosto 1968 - Loc. Castelletti, Signa.
L’incipit di questa storia ha il rumore squillante di un campanello di una palazzina che suona alle 2.00 di notte. Il campanello è dell’abitazione del Sig. Francesco De Felice (Via Vingone 154, Sant’Angelo a Lecore FI) mentre la mano che lo suona è di Natalino Mele, di anni 6. Affacciatosi alla finestra il Sig. De Felice vede il bambino che lo guarda dal basso verso l’alto e gli rivolge queste parole: “Aprimi la porta perché ho sonno, ed ho il babbo ammalato a letto. Dopo mi accompagni a casa perché c’è la mi’ mamma e lo zio che sono morti in macchina”.
Il Sig. De Felice carica il piccolo Mele in macchina ed insieme al vicino di casa lo portano alla Caserma dei Carabinieri di San Piero a Ponti. Da lì, seguendo le indicazioni del bambino giungono insieme al Carabiniere di turno ad un’Alfa Giulietta con l’indicatore di direzione di destra acceso e parcheggiata lungo un tratturo vicino ad un traliccio dell’alta tensione. All’interno della vettura scorgono i cadaveri di un uomo ed una donna: Barbara Locci e Antonio Lo Bianco.
La Locci è seduta sul sedile guidatore, tiene le braccia lungo il corpo e le gambe leggermente divaricate. Indossa ancora il reggiseno ed una veste a fantasia colorata alzatasi fino all’altezza dell’inguine. È scalza. Le sue scarpette da donna sono sotto il sedile passeggero. Una di queste spunta dal tappetino del sedile posteriore destro. Al collo porta una collana con l’effigie spezzata in due punti e trattenuta nella pelle. È stata attinta da quattro colpi d’arma da fuoco:
- uno in regione costale dorsale sx;
- uno in regione lombare dorsale sx;
- uno in regione epicolica dorsale sx;
- uno alla spalla sx;
I primi tre colpi presentano la stessa traiettoria dall’alto verso il basso, da sinistra verso destra ed ovviamente postero-anteriore. Il colpo alla spalla sinistra ha una traiettoria da destra verso sinistra. Ciò fa supporre, come dinamica, che la vittima femminile sia stata dapprima colpita con i primi tre colpi mentre era protesta col busto e la testa verso la vittima maschile per poi rutorare sul fianco destro, discostandosi quindi dall’amante e voltandosi verso lo sparatore così da determinare il cambiamento di traiettoria dell’ultimo colpo esploso che la colpisce alla spalla sinistra.
Il Lo Bianco giace sul sedile passeggero totalmente reclinato, per favorire il rapporto. Vi è disteso supino, ha i pantaloni sbottonati con le mani ancora intente a slacciarli. Calza la sola scarpa destra mentre l’altra è sul tappetino del lato guidatore. Alla sua destra, incastrato tra il sedile e lo sportello si trova un borsellino da donna aperto. È stato attinto da tre colpi d’arma da fuoco che hanno trapassato i tessuti molli del braccio sinistro e penetranti nel torace, con interessamento del polmone sinistro, dello stomaco e della milza. È stato poi colpito da un altro colpo d’arma da fuoco all’altezza dell’avambraccio sinistro.
Tutti e quattro i colpi esplosi sono stati sparati in rapida successione. Il decorso dei tramiti pressoché parallelo depone a favore di uno scarso movimento della vittima e della mano dello sparatore. La traiettoria è dall’alto verso il basso, da sinistra verso destra e in senso lievemente antero-posteriore. In pratica l’omicida avrebbe sparato dal lato sinistra della vettura in posizione lievemente più avanzata rispetto al fianco delle due vittime.
L’Alfa Romeo ha tutte e quattro le portiere chiuse, tranne quella posteriore destra semiaperta. Il finestrino lato guidatore è abbassato di circa 3 cm, quello posteriore destro è abbassato per metà e quello lato passeggero totalmente aperto (Sia la perizia De Fazio che il Rapporto dei Carabinieri di Firenze del 29 Agosto 1968 riferiscono del finestrino passeggero chiuso. Circostanza questa che sembra essere smentita dallo stesso fascicolo fotografico all’interno del Rapporto dei Carabinieri al cui Rilev. n. 5 si vede chiaramente il finestrino anteriore destro totalmente abbassato. Non si comprende quindi se questo sia stato aperto solo successivamente dagli inquirenti a fini investigativi o pratici ma non se ne capirebbe il senso se non quello di garantire una maggior visuale all’interno della vettura).
Verranno rinvenuti n. 5 bossoli Cal. 22: tre fuori dall’auto sul lato sinistro di questa e due all’interno della vettura tra gli schienali dei sedili ed il divanetto posteriore. Particolare questo che evidenza come l’omicida abbia esplodo almeno due degli otto colpi sparati inserendo la pistola fin dentro la vettura.
Esposti questi rilievi ci è ora possibile ipotizzare una dinamica della vicenda omicidiaria.
La coppia di amanti esce dal cinema e si dirige con la vettura del Lo Bianco a Castelletti e parcheggia lungo la strada sterrata a circa 150 mt dalla principale. Sul divanetto posteriore dorme il piccolo Natale Mele. I due amanti si cambiano di posto posiziondosi l’uomo sul lato passeggero e la donna sul lato guidatore. L’uomo abbassa il sedile ed inizia a sbottonarsi i pantaloni. Slaccia la cintura ed apre la patta mentre la donna, scalza, è china su di lui coprendogli quindi il fianco sinistro. Si può ipotizzare, dato il ritrovamento delle scarpe della donna al di sotto del sedile passeggero che lo scambio di posizione tra i due sia avvenuto senza uscire dalla vettura. La Locci si toglie le scarpe e le posizione sotto il sedile. Il Lo Bianco scivola sul sedile passeggero facendosi salire l’amante in collo ed iniziando così le prime effusioni. È possibile che il Lo Bianco abbia perso la scarpa sinistra alzando la gamba sinistra nella parte del lato guidatore, e riabbassandola una volta portata sulla parte destra. Il muratore siciliano ha poi iniziato a slacciarsi i pantaloni e la Locci si chinata su di lui.
Ora non ci è possibile sapere con esattezza chi dei due è stato per prima attinto dai colpi di pistola, ma possiamo ipotizzarlo concentrandosi sulla dinamica.
L’assassino affianca l’Alfa Romeo sul lato sinistro, striscia furtivo lungo la fiancata e giunge in prossimità dello sportello del lato guidatore. Lo sportello è presumibilmente chiuso ed il finestrino abbassato per soli 3 cm. È logico, dunque, pensare che l’omicida sia stato costretto ad aprire lo sportello del guidatore per fare fuoco.
Diversamente per quanto accadrà nei delitti successivi a questo, l’omicida non si serve di un mezzo ostativo tra lui e l’obiettivo, come il vetro di una macchina, le lamiere di un pulmino, o una tenda, ma spara direttamente verso la coppia.
Se la donna era riversa sull'uomo ma mantenendo almeno in parte la seduta sul sedile guidatore col proprio corpo avrebbe dovuto coprire il fianco sinistro dell’amante o quanto meno porvisi d’ostacolo. Difficile quindi che l’omicida sia riuscito a colpire, come ha effettivamente fatto, il braccio sinistro del Lo Bianco trapassandolo e giungendo all’emitorace sinistro se questo fosse stato coperto dalla Locci.
Da qui si aprono due diverse ipotesi:
- la prima è che ad essere colpito per prima sia stata la stessa Locci quando era riversa sul Lo Bianco. Una volta raggiunta dai tre colpi al dorso è ruotata col fianco riposizionadosi sulla sua seduta natutarale a lato guidatore e nella torsione è stata attinta dal quarto colpo alla spalla proveniente infatti da diversa angolazione. Poi l’omicida ha continuato sul Lo Bianco fermo sul sedile passeggero terrorizzato per quanto stava accadendo. Questa ipotesi presenta però qualche perplessità circa il comportamento dell’uomo. I colpi come già detto presentano lo stesso grado di angolazione e traiettoria tanto da portare alla certezza che né lo sparatore che la vittima si sono mossi durante l’azione omicidiaria. Comprensibile per quanto riguarda il primo che avendo i bersagli tra i 60 ed i 90 cm da sé non aveva motivo né necessità di spostarsi, meno per il secondo che vistosi aprire uno sportello ed esplodere quattro colpi contro l’amante vicinissima a lui non abbia tentata una minima fuga rimanendo così nella posizione in cui già era;
- la seconda prevede invece che i due non fossero abbracciati tra loro o che la Locci fosse china sù l’amante, ma ognuno sul proprio sedile di guida. Ad essere stato colpito per prima sarebbe stato quindi l'uomo sul fianco, in questa ipotesi, “libero”. La donna poi, impedita dalla figura dell’omicida a bloccarle l’uscita sulla propria portiera ha cercato riparo lontano dalla provenienza dei colpi mostrando così il dorso al allo sparatore che ha così avuto modo di esplodere gli altri colpi nel caricatore. Tre dei quali hanno colpito la Locci al al dorso nelle zone costale, lombare ed epicolica ed un quarto, una volta che si era ritratta a causa dei colpi subiti, alla spalla sinistra con angolazione diversa.
Ipotesi quest’ultima che prevederebbe la possibilità degli ultimi due colpi esplosi all’interno della vettura per avvicinarsi alla Locci voltatasi in un disperato tentativo di fuga. Nel primo caso, invece, i colpi esplosi all’interno della vettura sarebbero stati quelli verso l’inerme Lo Bianco fermo sul sedile passeggero.
Arrivati a questo punto l’omicida ha aperto lo sportello della vettura, esploso otto colpi d’arma da fuoco ed ucciso due persone che magari un piccolo grido di paura o dolore lo hanno pure lanciato. Il tutto in meno di un minuto e alla presenza all’interno dell’auto del piccolo Natalino Mele.
Ecco uno dei tanti interrogativi che ci poniamo: come ha fatto il piccolo Natale a non sentire niente e svegliarsi solo alla fine quando l’assassino stava ricomponendo i corpi delle due vittime (secondo la versione dello Stefano Mele, condannato poi per l’omicidio della moglie e l’amante) o quando i due erano già morti e non ha visto nessuno come ricorda (solo a volte) il piccolo Mele?
Dalle foto della scena del crimine si vede chiaramente quanta vicinanza vi sia tra i sedile anteriori ed il divieto posteriore. La Calibro22 che ha sparato non è certo una pistola rumorosa, ma comunque percepibile anche ad un cinquantina di metri di distanza. Eppure il piccolo Mele non si sveglia fino all’ultimo colpo sparato. Il bambino aveva i piedi praticamente all’altezza del poggiatesta reclinato del Lo Bianco, la vettura non era una utilitaria ma una piccola Giulietta parcheggiata al buio in una notte silenziosa dove vengono sparati otto colpi d’arma da fuoco dei quali almeno due all’interno della stessa. Continuare a credere che lo sventurato bambino non abbia visto niente una volta svegliatosi pare assai improbabile.
È dunque possibile che il bambino abbia visto chi sparava o comunque si sia destato dal sonno ai primi spari, ma è altrettanto possibile che l’assassino non si sia accorto della presenza del bambino all’interno della vettura?
Poniamo che l’omicida non conosca direttamente le due vittime (e quindi il figlio della Locci) e che si trovi sul luogo del delitto casualmente e che quindi gli amanti siano vittime fortuite capitate nel luogo sbagliato al momento sbagliato. In tal caso si aprono anche qui due diverse strade:
- l’omicida incontra la coppia mentre entra od esce dal cinema dove aveva trascorso la serata, non si accorge del bambino, li segue, aspetta che parcheggino la vettura nella stradina sterrata, li osserva da lontano e pian piano si avvicina alla macchina, presumibilmente da dietro di questa, uscendo così dal campo visivo della coppia seduta sui sedili anteriori. Se l’omicida, pistola alla mano, fosse davvero giunto da tergo della vettura avrebbe intravisto la coppia già giunto al finestrino posteriore sinistro e guardando attraverso questo in direzione del sedile passeggero, già reclinato, (dove avveniva la liaison) avrebbe visto che prima di questo vi era una figura che occupava sdraiato il divanetto posteriore della Giulietta. Nel caso poi che, distratto, non lo avesse visto, avrebbe potuto notarlo dal suo angolo di sparo quando mirava alle vittime una volta aperto lo sportello ed il fuoco contro di queste. La traiettoria dei proiettili depone, infatti, per una posizione anteriore rispetto ai corpi e quindi posta in modo da vedere entrambi gli amanti quasi frontalmente. In tal caso, in mezzo a questi, avrebbe visto il corpo del piccolo, rannicchiato sul sedile posteriore. Nell’ipotesi in cui invece l’omicida fosse giunto a lato della macchina, comparendo quindi dalla vegetazione, varrebbe quanto detto sopra circa l’angolazione e la visuale di tiro una volta aperto lo sportello dell’Alfa Romeo;
- l’omicida conosce, anche solo indirettamente, la coppia Locci - Lo Bianco. Il suo è un delitto premeditato, organizzato e finalizzato all’eliminazione in quel luogo ed in quel momento della coppia di amanti fedifraghi. In questo caso difficile che non sapesse della presenza del piccolo Mele all’interno dell’auto. È possibile anche che lo abbia posto come elemento determinante del suo piano mortifero senza il quale quel 21 Agosto 1968 non avrebbe colpito. Avremo dunque un omicida che decide comunque di colpire quella notte, nonostante la presenza del bambino, sicuro che niente gli sarebbe capitato in quanto un obiettivo da lui non ricercato, né desiderato: un innocente. Circa quest’ultima possibilità la tratteremo esaurientemente nei successivi approfondimenti.
Segue...
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5 commenti:
Molto interessante; anche se non concordo con la ricostruzione per quanto riguarda i colpi sparati, non trovando riscontro, nel materiale a me noto, di un ottavo proiettile
Salve Omar,
Circa i tuoi dubbi a riguardo dei colpi sparati non posso far altro che farli miei in quanto so bene che alcuni propendano per tre colpi esplosi verso la vittima maschile ed altri, invece, quattro. Di questo puntò si parlerà nella seconda parte di questo primo approfondimento.
In questa prima ho riferito di quattro colpi prendendo come fonte il referto autoptico del Dott. Graziuso.
Quest'ultimo riferisce:
- di due soluzioni di continuo all'avambraccio sx (foro di entrata ed uscita) tra loro ravvicinate in quello che è c.d. come una ferita a setone.
- tre soluzioni di continuo (una all'altezza del deltoide ed altre due vicine al 3° medio ed il 3° inferiore) sempre sulla faccia anteriore del braccio sx, tutte e tre indicate come foro d'ingresso in corrispondenza di tre di uscita (due dei quali si infrangono poi sull'emitorace sx ed altro fuorirsce per poi ledere - di striscio - la zona scapolare).
L'incertezza circa i colpi deriva proprio dalla descrizione che viene fatta dei due sulla faccia anteriore del braccio sx.
Per evitare di dilungarmi qua, ti invito a scrivermi all'indirizzo e-mail indicato in introduzione così da poter dialogare sul tema dei colpi esplosi che risulta senza dubbio interessantissimo.
Grazie per l'interesse dimostrato ed il commento,
E. Oltremari
Grazie per la risposta.
Ti può forse interessare il mio articolo sull'argomento, scritto in collaborazione con il prof. Claudio ferri:
http://mostrodifirenzevolumei.blogspot.it/2017/10/quanti-colpi-signa.html
http://mostrodifirenzevolumei.blogspot.it/2017/10/quanti-colpi-signa-2.html
Non mi sono addentrato in una ricostruzione della dinamica dell'omicidio che va oltre le mie capacità, ma ho voluto dimostrare (o cercare di dimostrare) quanto uno dei pilastri che vengono addotti a dimostrazione della presenza sul posto di Stefano Mele sia in realtà traballante.
Eventuali critiche sono bene accette.
Salve Omar,
Ho letto (anzi, ri-letto) con piacere il tuo articolo e ti faccio i complimenti per quanto scritto.
Come pensiero personale, sono in linea con quanto da te ipotizzato circa il colpo esploso verso la coppia con questo che colpisce prima l'avambraccio del LoBianco e poi la Locci.
Di questa eventualità - e di critiche a questa - verrà data menzione più avanti nel corso della rubrica.
Grazie ancora per l'interesse e complimenti davvero per il tuo contributo al caso,
E. Oltremari
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