Fu ministro consigliere a Mosca negli Anni Ottanta, e ambasciatore a New Delhi negli Anni Novanta. Dopo le rivelazioni di un investigatore privato francese, venuto in Italia per scoprire la verità sul duplice omicidio di Nadine Mauriot e Jean Michel Kravechvili, ed i dossier di Francesco Bruno per il Sisde, fu sospettato, insieme al fratello Giulio, di aver partecipato alle messe nere organizzate dalla setta esoterica che ordinava feticci al "mostro di Firenze". Il 22 giugno 2002 rilasciò l'intervista che segue a Giuseppe D'Avanzo, giornalista di Repubblica.
Gaetano Zucconi: "In Italia non esiste la pena di morte, ma la morte civile sì e io mi sento condannato a una morte civile. È una condanna che uccide lentamente, che ti porta via quanto hai di più caro, un buon nome costruito dal lavoro e dalla vita di più generazioni, gli amici che hai amato o ami; è una Gehenna che isola la tua famiglia precipitandola nel disonore; è un fantasma che, alla fine, ti divora come un' ossessione. (...) Mi è sembrato naturale e doveroso attendermi giustizia da chi è deputato ad amministrarla. Sono stato per tutta la mia vita un funzionario dello Stato e a quella regola di discrezione personale e di rispetto istituzionale ho ritenuto di tener fede anche in questa penosa circostanza, anche quando c' era chi mi consigliava di reagire, di protestare. No, replicavo, è un lavoro che la legge assegna ai giudici. Prima o poi, mi dicevo, queste «voci di questura» assumeranno la forma di accuse, di contestazioni formali e allora mi difenderò davanti alla magistratura. O, se nessuna contestazione si materializzerà, sarà un giudice a punire la diffamazione del mio nome. Purtroppo, mi sono illuso: non vanno così le cose in Italia... (...) Il mio avvocato continua far la spola con la Procura per sentirsi ripetere dal procuratore aggiunto Paolo Canessa che non c' è niente sul mio conto. Non so come e dove è nata la calunnia che travolge la memoria di mio fratello. So soltanto che per tirare il suo nome dentro questa storia hanno dovuto coinvolgerne la moglie, mia cognata, (Maria Ines Pietrasanta ndr) che da quattro anni risulta indagata, senza seguito alcuno, per aver rapinato la moglie di Pacciani di 200 mila lire. (...) «Comincia qui la mia condanna alla morte civile. Né la polizia né la procura di Firenze mi contestano alcuna accusa. L' assalto, se così si può dire, comincia altrove. Un giorno, un quotidiano pubblica nei dettagli accuse infamanti contro mio fratello. Il tono è vago nel descrivere il sospetto: «Un ginecologo che viveva nelle campagne intorno a Firenze». Passa qualche tempo, altro articolo, stesso quotidiano, ripreso poi da altri e dalla tv in una staffetta diffamatoria. Il tono è ancora vago, ma ci sono sufficienti elementi per identificarmi: «Tra le posizioni all' esame degli inquirenti c' è quella di un ambasciatore ora in pensione legato da rapporti di parentela al ginecologo di San Casciano, amico di Pacciani». Giulio non ha mai conosciuto Pacciani, ma la circostanza non sembra inquietare i cronisti. A quel punto - due fratelli, uno ginecologo, l' altro ambasciatore - è pronta per me la gogna. Sono identificabile da chi mi conosce, nel mio ambiente professionale, nell' ambito dei miei amici. Vedo crescere intorno a me un muro che mi isola dal mondo. Quell' amico non si fa più vivo. Quell' altro tace da tempo. Certo, può dipendere da molte circostanze. Le amicizie non sono eterne. Ma quando il silenzio prende a circondarti come una condanna, cominci a sapere che cos' è la morte civile. Rientrato in Italia, avrei desiderato riprendere contatto, ad esempio, con persone di cui ho amato in passato la compagnia. Mi costringo a non farlo per non creare reciproci imbarazzi. Come posso reagire? Posso dare querela? No, mi dicono gli avvocati, il mio nome non è stato mai fatto. Attendo tra le proteste dei miei familiari e dei miei figli, che vorrebbero una reazione. Scrivo ai giornali che hanno pubblicato quelle cronache. Le mie smentite non vengono mai pubblicate. Mi rivolgo alla Procura di Firenze. Mi rassicurano che non sono indagato, che «sul mio conto non c' è nulla». Un giorno, il telegiornale di un network nazionale dà per certa «la partecipazione di un noto ginecologo e del fratello ambasciatore a messe sataniche». Mi sembra di aver trovato il bandolo della matassa. Querelo. Finalmente potrò liberarmi dal sospetto. Ne ricavo il proscioglimento del direttore del telegiornale con questo argomento: «La frase non appare di per sé offensiva della reputazione di terze persone e, comunque, appariva riportare correttamente un episodio sul quale all' epoca la magistratura stava indagando». Ma come si può sostenere questo? Mi riesce difficile immaginare un' accusa più infamante anche se soltanto si vuole tener conto del fatto che, insinuando che una persona ha partecipato a delle messe nere, gli si conferisce, per lo meno, la patente del cretino. Non basta. C' è quel riferimento alle indagini della magistratura. La Procura sostiene che non sono indagato. Ma ipotizziamo per un attimo che quelle indagini ci fossero, è possibile che io ne sia stato tenuto completamente all' oscuro, mentre i media ne sono stati informati con dovizia di particolari? Mi amareggio quando leggo che il procuratore di Firenze ha emesso un comunicato ufficiale per scagionare il suo collega Piero Luigi Vigna dall' accusa, diffusa da un settimanale, di aver depistato le indagini sul mostro. Mi chiedo perché la Procura non ha emanato un comunicato anche nel mio caso per scagionarmi dalle accuse che mi colpiscono? Ci sono forse due categorie di cittadini: quelli che vengono difesi d' ufficio e quelli che possono essere distrutti? Perché è quello che è accaduto: il mio nome è stato dato dalle «voci di questura» in pasto alla stampa senza una prova, senza un brandello di indizio, senza alcun coinvolgimento. Ora io sento l' obbligo di reagire. Ma come posso riscattare la memoria di mio fratello? Come posso difendere la mia reputazione? Come posso difendermi dalle ombre?"
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