martedì 17 dicembre 2019

PUNTURE. Riflessioni in tema di modus operandi di E. Oltremari

Introduzione.

Capita spesso, trattando di questi delitti, che l’osservatore si dimentichi - senza colpa - dell’umanità di chi li ha commessi. Lungi dal voler lodare l’autore dei delitti attribuiti al c.d. Mostro di Firenze, l’accezione umana, in questo caso, si riferisce alla condizione umana propria dell’omicida che, come tale, si comporta ed agisce come un uomo alle prese con un’azione da compiere ed un obiettivo da raggiungere. Proprio, quindi, come il bipede frequentatore di piazze e bar, anch’esso deve affrontare ciò che il suo collega erectus battaglia ogni giorno: ostacoli. Tutto ciò che all’uomo si interpone tra sé ed il proprio obiettivo configura un elemento di ostacolo - appunto - da aggirare, affrontare per così raggiungere la propria meta, sia questo di carattere sociale, burocratico, naturale, fisico o umano.
Non si commetterebbe errore alcuno - purtroppo - se si volesse identificare la meta dell’omicida nell’evento morte dei malcapitati giovani. Meta che - come, ahinoi, ben sappiamo - riesce sempre a raggiungere, non essendo a noi noti suoi “colpi a vuoto”. Ogni volta che l’omicida ha premuto il grilletto è riuscito nel suo intento senza lasciare superstiti.
Gli ostacoli che a questa macabra meta si frappongono sono di diversa natura e che per praticità proveremo ora ad esemplificare.
Avremo, ad esempio, ostacoli di natura geografica, consistenti nella geografia dei luoghi, nel loro raggiungimento, nella conformazione del terreno e della flora circostante ai luoghi del delitto.
Ostacoli di natura morale e psicologica, consistenti nel compimento dell’azione omicidiaria in sé, nel timore di essere scoperti, nell’eccitazione dell’azione tanto attesa e pianificata, nella maniacalità e nella ritualità dei gesti, nell’eventuale relazione con le vittime ed a loro eventuali reazioni ed interazioni con l’omicida.
Ostacoli di natura pratica, consistenti in tutto ciò che concerne l’azione materiale mortifera e post mortem: utilizzo dell’arma, cambio mano, trascinamento corpi, avvicinamento alla vettura, scelta del lato da cui far partire l’aggressione, dove compiere le escissioni, dove conservare i feticci e come portarli via dalla scena, come raggiungere la propria abitazione, ecc…
Ostacoli di natura sociale, riferibili ad ogni genere di allarmismo provocato dal crescente pericolo di aggressioni, a cui devono collegarsi sia la maggiore attenzione delle forze dell’ordine che degli stessi ragazzi più attenti ai luoghi dove appartarsi e ad eventuali avvicinamenti sospetti alla vettura.
Stante quanto sopra premesso, verremo ora ad analizzare quelle che sono le azioni dell’assassino delle coppiette durante i suoi otto percorsi di morte, cercando di sottolineare quali comportamenti dell’assassino sono riscontrabili come evoluzioni, correzioni del suo agire e di rimozione di ostacoli verso il suo obiettivo primatio. Attraverso questa analisi, ci prefiguriamo l’obiettivo di stimolare argomenti di riflessione utili ad un corretto inquadramento comportamentale dell’autore dei delitti.

2.1. I delitti. Legenda.

Per praticità e chiarezza, come già realizzato per gli approfondimenti de “L’Uomo dietro il mostro”, utilizzeremo la seguente rubricazione per identificare di volta in volta i duplici omicidi:
Caso 0 (Locci/Lo Bianco);
Caso 1 (Pettini/Gentilcore);
Caso 2 (De Nuccio/Foggi);
Caso 3 (Cambi/Baldi);
Caso 4 (Mainardi/Migliorini);
Caso 5 (Rush/Meyer);
Caso 6 (Rontini/Stefanacci),
Caso 7 (Mauriot/Kraveichvili)

Premessa: per economia i paragrafi che seguiranno non conteranno la descrizione dettagliata della scena del crimine e spesso saranno dati per conosciuti elementi che risulteranno certamente digeribili e conoscibili ai non neofiti della materia.

2.2. I delitti. La Genesi.

Il tramite dei colpi d’arma da sparo riferibili al Caso 0 depone per un’azione omicidiaria rapida, fulminea, tale da cogliere di sorpresa i due amanti così da recarne la morte nel più breve tempo possibile. Azione a sorpresa verificatasi nonostante la difficile geografia del luogo del delitto: l’automobile si trova, difatti, parcata su una superficie composta da sassi - non propriamente utile ad una camminata silenziosa e felina - e con una vegetazione di copertura distante dalla vettura (fig. 1),
dovendo considerare quella limitrofa alla fiancata destra della vettura come non consona ad un occultamento e comunque opposta dal punto di origine dei colpi d’arma da fuoco.
In tal senso, l’omicida avrebbe quindi dovuto muoversi senza coperture per alcuni metri prima di arrivare allo sportello lato guidatore, aprirlo ed esplodere i colpi di pistola. Il tutto, ricordiamo, con estrema efficienza ed efficacia, stante il risultato.
Fra le azioni poste in essere dall’omicida risalta sicuramente l’apertura dello sportello. L’automobile, così come parcheggiata in relazione al punto di sparo e presupponendo uno sparatore destrimane - come appurato dalle perizie circa le ferite d’arma bianca riscontrate negli anni successivi - rendeva possibile un’apertura dello sportello con la mano sinistra così da lasciare libero spazio al braccio destro di alzarsi e puntare l’arma contro i due corpi, più riversi sul sedile lato passeggero.
Azione questa tanto naturale da non trovare ostacoli o impedimenti verso l’evento morte che si realizza in un arco temporale ristrettissimo, senza colpi a vuoto o eccessive reazioni da parte delle due vittime che probabilmente non si sono accorte di niente fino all’apertura dello sportello. Non è oltretutto da escludere l’ipotesi che quantomeno la vittima femminile avesse un livello di guardia più elevato rispetto al normale: dopotutto era stata lei stessa a riferire poco tempo prima che potevano “sparargli mentre si trovava in macchina”.
Ciononostante, premesse le difficoltà che presentava il luogo del delitto - come già prima accennato - l’omicida raggiunge il proprio obiettivo con estrema perizia ed abilità: non si fa notare, riesce a colpire di sorpresa le vittime e non spreca colpi.
Non male come prima volta.
Male, invece, la seconda.

Le premesse relative al Caso 1, sono pressoché identiche rispetto al delitto avvenuto sei anni prima. Anche qui abbiamo un automobile parcata in un luogo sì isolato ma non certo utile ed idoneo ad un’azione sicura (fig. 2).

Come per il Caso 0 anche qui l’automobile non è circondata da vegetazione utile alla copertura ed all’occultamento in quanto distante svariati metri dalla carrozzeria della vettura. L’assassino, dovrà nuovamente percorrere alcuni metri scoperto per potersi avvicinare all’automobile.
Il livello di attenzione delle future vittime qui è bassissimo: non esiste alcun Mostro né altra minaccia proveniente da terzi. Considerata poi la storia sessuale dei giovani è facile poi presupporre che il focus dei ragazzi fosse diretto su loro stessi e su quanto erano in procinto di fare.

Come per il Caso 0 l’omicida predilige una tecnica d’assalto repentina costituita dall’appostamento, dall’uscire dal proprio riparo, percorrere dei metri a piedi allo scoperto, aprire lo sportello e sparare verso i corpi. Ricalca così la stessa condotta eseguita sei anni prima, ma applicate ad una situazione che presentava una stonatura tale da inclinare quella sua scaletta così proficuamente posta in essere a Castelletti. Una nota stonata che risponde al nome di sportello.
Ora, risulta doveroso premettere, per quanto riguarda il Caso 1, che vi è una profonda discrasia tra le due ricostruzioni sulla dinamica dell’omicidio: una che propende per i colpi esplosi prima dal lato guidatore e poi dal lato passeggero; altra che invece propone per un unico punto di sparo originato dallo sportello lato passeggero. Senza volersi dilungare oltre e rimandando all’approfondimento de L’uomo dietro il Mostro presente su IdP ed al già ottimo lavoro di Valerio Scrivo sul tema, per il tramite dei colpi, le ferite inferte, il posizionamento del corpo del ragazzo, chi scrive propende più per una dinamica circoscritta ad un unico punto di sparo, cioè dal lato del passeggero. Seguendo tale linea di pensiero vediamo come l’omicida, per emulare l’azione del delitto Caso 0 e magari forte della riuscita dell’azione, decida di agire analogamente, cioè puntare il lato della donna. Questa volta, però, la portiera - come dicevamo - è quella sbagliata.
Nel Caso 0, l’omicida apre la portiera lato guidatore con la sinistra, la tira a sé e si trova un angolo di tiro ampio per la pistola impugnata con la destra; qui, nel Caso 1, la portiera da aprire è quella lato passeggero che aprendo con la sinistra copre il proprio angolo di tiro sia con la sua stessa mano che con la portiera stessa. Possibile, dunque, che l’omicida abbia aperto la portiera con la mano destra (azione più naturale) ed abbia provato a sparare con la sinistra, mano non da lui perfettamente gestibile e causa della scarsa mira e dello spreco di proiettili; ancora, possibile che l’omicida abbia fatto tutto con la mano destra, cioè aprire lo sportello e sparare, creando quello scarto di tempo che ha reso i giovani purtroppo consci dell’aggressione e spiegando così la rotazione del corpo del ragazzo, la sua gamba sul tappetino del lato passeggero ed il suo voltare il corpo all’omicida, senza contare la reazione della vittima femminile e la sua interazione con l’assassino. Non dimentichiamoci poi che con la mano libera l’assassino qui è anche costretto ad estrarre l’arma bianca per utilizzarla nei confronti della giovane donna (già nell’approfondimento in UdM si presentava la suggestione di una “mano in più” durante l’aggressione alla vittima femminile ma di cui, almeno ora, non parleremo).
La ragazza verrà poi trascinata dietro la vettura per essere poi attinta dalle pugnalate post mortem. Sarà la prima ed unica volta in cui l’omicida effettuerà tale azione nella prossimità della vettura, prediligendo poi negli anni successivi uno spostamento del corpo a metri di distanza. Evento questo a cui più avanti proveremo a dare una spiegazione.
Per i primi due delitti lo sparatore predilige, dunque, il lato che presentava la donna più vicina a sé. Considerato che nel Caso 0 potrebbe aver assistito al cambio di posizione tra il guidatore e la Locci e nel Caso 1 - ricordiamo la questione dei vestiti fuori dalla vettura - ad un posizionamento dei giovani sul sedile del passeggero, potremo pensare ad un assalitore che decide di colpire dal punto in cui aveva più vicino a sé la donna, magari come primo oggetto del suo agire punitivo e maniacale.
Sono condizioni queste che rendono la dinamica del Caso 1 più fragile e pericolosa rispetto a quella del Caso 0: crea confusione, rumore eccessivo, probabili grida, finisce i proiettili, deve utilizzare in senso mortifero l’arma bianca ed entra in contatto con le vittime. Difatti, questa modalità d’assalto verrà accantonata dall’omicida che, difatti, non la utilizzerà più. Da qui potrebbe ipotizzarsi come il duplice omicidio del Caso 1 non sia un omicidio programmato o studiato, o quantomeno non sia un delitto ben pianificato. Le circostanze non si presentano così favorevoli ad un assassino che paradossalmente sei anni prima, più giovane e con vittime più vecchie rispetto a quelle del Caso 1, con elementi ancor più di sfavore (terreno e presenza del bambino in auto), riesce ottimamente nel suo obbiettivo compiendo anni dopo un apparentemente inspiegabile passo indietro esperenziale. Qui, per il Caso 0, potremo propendere per una buona abilità dell’assalitore avendo il paragone di una dinamica simile di qualche anno dopo dove, uno stesso agire, ha creato un risultato molto diverso. Risultato dovuto forse ad un cambio dell’offender che voleva emulare l’assalto del delitto 1968 o magari ad un difetto di programmazione o strategia o ancora in una incapacità di gestione della situazione dovuta - come in tanti pensano - ad una conoscenza delle vittime.

2.3. Gli anni ’80: la scia di delitti.

Passano gli anni e ne trascorrono ben sette. Ormai del delitto del Caso 1 se ne è perso le tracce nei giornali, nessuno ne parla più e qualcuno, purtroppo, nemmeno lo ricorda più. Il livello di attenzione da parte delle vittime del Caso 2 è quindi bassissimo.
Il luogo dove i giovani parcheggiano l’automobile è abitualmente frequentato da coppiette. Lo sanno in tanti e lo sanno i guardoni che, come sappiamo, hanno fra le loro fila almeno un soggetto che in Via dell’Arrigo, quella notte, ci passa.
Loco che è davvero poco battuto dagli avventori occasionali, soprattutto a quell’ora della notte. È una via dove un soggetto vuole andare, non ci passa per caso: sia di giorno che di notte.
L’omicida, diversamente da alcuni anni prima, si è preparato ed ha studiato i luoghi. Ha pianificato l’assalto modificandolo in una aggressione programmata. L’omicida ha compreso che la tecnica utilizzata anni prima è fallace, crea disturbo, confusione: è rischiosa. Deve trovare il modo di avvicinarsi il più possibile all’auto senza farsi vedere dalle vittime. Deve arrivarci vicinissimo perché al contempo ha compreso che meno colpi spara meglio è perché ne ha un numero limitato, rischia di far rumore, non può perdere tempo a ricaricare il caricatore e soprattutto non può rischiare una fuga delle vittime. Deve agire velocemente ed in modo efficace. Non deve più assalirli, deve sorprenderli.
La vittima maschile è stata colpita per la prima volta alla nuca da distanza ravvicinata. Tanto vicino che il terzo colpo ed i successivi verranno esplosi con la mano immessa all’interno della cabina. La vegetazione circostante non è idonea ad un perfetto occultamento, anzi (fig. 3). I metri che avrebbe dovuto percorrere per passare dal suo rifugio alla prossimità dell’auto sono ben maggiori rispetto a quelli del Caso 1 e del Caso 0.
Chi scrive ritiene quindi che l’omicida abbia utilizzato una tecnica per far abbassare le difese ai due giovani, manifestandosi a loro prima dell’assalto per poi colpirli quando loro meno se lo aspettavano. Potrebbe trattarsi di una divisa, come diceva il buon Avv. Filastò, o comunque anche solo una parvenza di questa ma comunque utile a poter far abbassare le difese ai ragazzi e permettersi così di poter sparare a distanza ravvicinata, senza far neanche voltare il ragazzo (magari intento a parlare con la fidanzata per richiederle di passargli, ad es. il libretto tenuto nel cruscotto o altro, o magari la borsa che ricordiamo è stata ritrovata fuori dal lato guidatore). 
L’omicida ha capito che è più comodo, rapido ed efficace sparare attraverso i finestrini, senza dover dare segni della propria presenza aprendo lo sportello all’interno di un luogo che lui ha studiato, che conosce, come nel Caso 2.
Qui l’omicida compie un ulteriore passo avanti, arrivando a comprendere del pericolo di compiere le escissioni nella prossimità dell’auto. Meno lui sosta vicino all’auto meglio è. I luoghi del delitto sono tutti molto vicini ad una via dove era possibile incontrare il passaggio di altre vetture, si voglia anche solo di altre coppiette in cerca di un luogo appartato. L’omicida sa che se passa una vettura, il guidatore può essere attratto da altra auto ferma, anche solo perché magari chi guidava sapeva che quella piazzola poteva essere un buon punto ma vedendo altra auto capiva che era occupata e tirava via oltre. Si comprende quindi come avrebbe destato qualche perplessità o qualcosa da raccontare se quel guidatore avesse visto un’auto ferma con a lato un soggetto intento ad armeggiare sopra una ragazza: un rischio troppo grande, aggirabile con lo spostamento del corpo della giovane in un loco più riparato, come poi effettivamente farà.
È una dinamica, questa, che rappresenta probabilmente la migliore finora messa in atto dall’omicida, utile ad aggirare gli ostacoli ed a raggiungere l’obiettivo in modo efficace. Purtroppo per l’omicida però, questa metodologia potrà applicarla soltanto questa volta a causa di un evento per lui imprevisto.
Un evento che ha nome e cognome: Enzo Spalletti.
L’omicida viene a sapere che qualcuno ha visto qualcosa. Ma cosa? È abbastanza sicuro di aver agito senza essere visto, ma non può ovviamente esserne certo. Lo Spalletti continua a rimanere correttamente in stato cautelare, non parla e niente dice, ma se gli inquirenti stessero attuando questa strategia per spremerlo e fargli dire quel poco che ha visto. E se davvero avesse visto qualcosa. Cosa potrebbe riferire di talmente pericoloso da indurre l’omicida a colpire, per la prima ed ultima volta, nell’Ottobre dello stesso anno. Magari lo Spalletti può aver visto l’inizio dell’aggressione, magari proprio il suo modo di agire travestito da es. guardia forestale. Un rischio troppo grande. Deve tornare a colpire per togliere il pretesto agli inquirenti di tenerlo dentro: deve commettere un altro omicidio con le stesse dinamiche del Caso 2, così da non lasciare adito a dubbio alcuno circa l’autore del fatto, dissimulando anche quel poco che lo Spalletti potrebbe aver visto.
Nasce però un problema: non può utilizzare la strategia precedente, deve agire in incognito. Ormai la sua strategia è inutilizzabile perché se lo Spalletti avesse riferito di aver visto ad es. un uomo in divisa, allora ci sarà maggior attenzione per gli uomini in divisa e ciò che gli permetteva di agire liberamente ora rischia di essere un pericoloso campanello d’allarme per qualsiasi pattuglia allertata.
È quindi costretto a cambiare nuovamente il suo modus operandi, deve rimanere celato il più possibile nel suo agire. Deve cercare di colpire in luoghi ove la vegetazione e la geografia gli permette maggior copertura: luoghi boschivi, filari di viti, canneti, alti cespugli utili a celare la propria persona fino all’imminenza della vettura. Arriviamo al 22 Ottobre 1981: Caso 3.
Lo studio dei luoghi dove colpire permette all’omicida di fruire della vegetazione che ricopre la fiancata destra della vettura. Quella della vegetazione limitrofa alla vettura sarà una costante che accompagnerà tutti i delitti successivi aventi come costante le due persone appartate in auto (Caso 4 e Caso 6).
Accade qui che i colpi vengono esplosi al di là del finestrino di quel lato della vettura che è proprio coperto dalla vegetazione. Spazio utile quindi all’omicida per potersi avvicinare il più possibile all’auto rimanendo coperto e celato dal filare di cespugli che segue la strada sterrata dove era parcata la volkswagen del Baldi. È talmente importante - adesso - questa componente per l’assassino che preferisce colpire da quel lato nonostante il suo avversario più pericoloso, cioè l’uomo, sia seduto sul sedile lato guidatore e quindi più lontano dalla sorgente di sparo (come diversamente aveva operato nel Caso 2 solo alcuni mesi prima).
Diversamente, quindi, da quanto realizzato nel Caso 2, ove era riuscito ad avvicinarsi alle vittime in modo manifesto ed utilizzando la strategia della c.d. divisa, qua - per le ragioni già affrontate - l’assassino muta e modifica la propria azione aggiungendo un correttivo: deve nascondersi non soltanto dalle vittime ma anche dagli sguardi di terzi. Non muta, perché probabilmente già ben perfezionato, il posizionamento del corpo femminile per il compimento delle escissioni. Mutato già dal Caso 1, l’omicida ben comprende che meno staziona attorno alla vettura ferma meglio è. Così come già avvenuto nel Caso 2, allontana il corpo della vittima femminile quel tanto che basta per poter rimanere celato alla vista di eventuali avventori provenienti dalla strada.
Per quanto ora esposto, il Caso 4 sembrerebbe sconfessare le righe precedenti. Per poter procedere però ad una corretta argomentazione risulta necessario fondare il nostro ragionamento su quanto ho esposto all’interno dell’approfondimento sul delitto di Baccaiano pubblicato su IdP ed a cui rimando. Base che potrebbe essere così riassumibile: l’omicida vuole colpire nella zona di Baccaiano volontariamente ed in quel giorno dopo aver studiato i luoghi, le vie di fuga, di accesso e la conformazione della zona.

Anche qui (fig. 5), come nei due precedenti casi, troviamo la stessa conformazione geografica che permette all’omicida di rimanere celato fino alla prossimità del veicolo giungendovi frontalmente. La sua unica sfortuna - ponendo noi ora la vittima maschile alla guida dell’auto poi finita nel fossato a lato strada - è di essere stato scoperto dai giovani, permettendo loro una iniziale fuga nella prossimità di una strada già utile a questa (la Virginio Nuova).
Non credo sia un caso che questo sarà l’ultimo delitto del Mostro che vede fra le vittime un soggetto in posizione di guida. Sarà una condizione, questa della guida che non si ripeterà più nei successivi tre episodi. Pare difatti una curiosa coincidenza che l’anno successivo l’omicida preferirà colpire un mezzo fermo, come il pulmino dei turisti tedeschi, ove nessuno si presentava sul sedile del guidatore ma entrambi i bersagli lontano dal volante.

2.4. Gli ultimi tre delitti: gli omicidi lontani dal volante.

L’omicida, dopo il Caso 4, comprende che un ostacolo al suo obiettivo, cioè la morte dei soggetti, è rappresentato da una possibile fuga di questi e considerato lo stato di allerta massima causalmente collegato all’aumentare dei delitti, i giovani, ora, sarebbero stati molto più attenti durante le loro gite amorose con alcuni di questi già col motore acceso per ripartire all’occorrenza. Pertanto l’omicida comprende che per superare questo ostacolo dovrà indirizzare la sua caccia verso obiettivi impossibilitati a fuggire. Potrebbe essere questa una delle motivazioni utili a spiegarci il perché l’omicida colpisca 15 mesi dopo il delitto del Caso 4, tornando (nel Caso 5) ad uccidere nel mese di Settembre, soggetti che non possono fuggire riaccendendo il motore in quanto lontani dal posto di guida.
Anche qui, nel Caso 5, si evidenza la medesima condizione degli ultimi delitti, ovvero una vegetazione che copre e segue una fiancata dell’abitacolo. Oltre a questa, gioca in favore dell’omicida la struttura stessa del pulmino che, proprio per i finestrini - alcuni dei quali opacizzati - e l’ampia carrozzeria, rende meno visibile l’avvicinamento di un terzo, soprattuto da tergo dove non vi è alcuna apertura. L’azione, però, rappresenta un unicum per l’assassino, costretto a colpire in uno spazio più ampio rispetto a quello dove fino ad adesso avevo rivolto i colpi di Beretta e soprattuto non in una automobile. L’ampiezza del vano è difatti certamente più confortevole rispetto a quella dell’abitacolo di guida. È forse per tale ragione che - scioccamente - l’assassino non rivolge fin da subito i colpi ponendosi verso l’unica via di fuga dei due giovani turisti, rischiando qui, proprio per il movimento dei corpi all’interno del vano, che uno di questi fuggisse. Arriva a tale conclusione probabilmente durante l’azione stessa, quando dopo i primi spari, gira attorno all’abitacolo per porsi a sparare dalla parte del portellone. È una dinamica, questa, che permetterà all’omicida di muovere un secondo gradino esperenziale perfezionando il suo modus operandi nel Caso 7, quando - come vedremo - si posizionerà in modo tale da accogliere la via di fuga delle sue vittime con i colpi di proiettile.

La brutalità del Caso 6, ci rende pienamente edotti di come l’omicida abbia ormai - purtroppo - perfezionato la sua tecnica imparando dagli errori commessi.
A dieci anni di distanza dal primo delitto mugellano il Mostro torna a colpire a pochi km di distanza da quella zona che sembrava ormai lontana dagli obiettivi dell’assassino, tanto che, seppur su un livello di “allerta mostro” abbastanza elevato, la zona mugellana non ne risentiva particolarmente. Forse a causa di quella distanza geografica rispetto al clima fiorentino o al senso di protezione dato dalla valle mugellana che le due vittime del Caso 6 si pongono in una condizione di rischio elevatissima: appartati in auto, durante il fine settimana, dopo cena, in un luogo isolato ed adiacente alla vegetazione ed a pochi km da dove era già avvenuto un altro delitto (che per convenzione indichiamo come “quello di Borgo” ma in realtà rappresenta un delitto di Vicchio anche questo).

L’omicida approfitta, come negli altri casi precedenti, della geografia del luogo, dopo averlo studiato (o, comunque, già conosciuto) precedentemente (fig. 7). Attende che i giovani si posizionino in modo tale da allontanarsi dal posto di guida, impossibilitando così una loro eventuale reazione utile alla fuga. Uscito dal suo rifugio, probabilmente arrivando da tergo della vettura, l’omicida spara i suoi colpi dal finestrino dove aveva i giovani più vicini a lui, uccidendo quasi subito la ragazza centrandola al volto e con più difficoltà il ragazzo, più lontano dalla fonte di sparo, per cui saranno necessari più proiettili. È il delitto, questo, che meglio identifica ormai il modus operandi del Mostro, proiettato sulla minima esposizione al pericolo ed al rischio e finalizzato all’ottenimento del miglior risultato possibile. È una condizione che, quindi, difficilmente potrebbe adattarsi ad un soggetto psicotico, schizofrenico o totalmente vittima della propria maniacalità. È, invero, una evoluzione empirica e metodologica che propende per una personalità dell’omicida estremamente organizzata e metodica, sintomatica di una lucidità modale e comportamentale pienamente coordinata con quella psicologica, anzi, talvolta forse ben più fredda di quanto la psiche dell’omicida vorrebbe esprimere ed utile, di conseguenza, a garantire quella cadenza annuale dei delitti riscontrabile da quando l’assassino prende dimestichezza con l’azione omicidiaria. Difatti, siamo ormai giunti al momento in cui l’omicida si veste da vojeur ed attende che i giovani siano impossibilitati ad una fuga, magari - come in questo caso - più spogliati e lontani dal volante.
Ed il Caso 7, rappresenta la sua più fine espressione.

Questo ultimo episodio delittuoso rappresenta il più chiaro esempio di come la morte, per l’omicida, rappresenti quanto di più alto e necessario rispetto alla componente di ritualità della scena. È l’ultimo delitto del Mostro di Firenze, “l’omicida delle coppiette appartate in auto” e non uccide una coppietta appartata in auto. Lo schema viene stravolto sull’altare dell’obiettivo primo che si circoscrive non tanto alla componente sessuale delle vittime, come atto in sé, quanto più ad un elemento fattuale costituito da due persone appartate in luogo pubblico, come in questo caso. Troviamo la vicinanza alla boscaglia, utile all’occultamento della persona - soprattutto se si considera come probabile via di accesso quel viottolo che arriva poco sotto la piazzola - ed una tenda.
La tenda, chiusa, con due persone all’interno lascia spazio ad alcuni quesiti e riflessioni:
Come faceva l’omicida a sapere che dentro si stava consumando l’atto sessuale. Impossibile da vedere, ma possibile da sentire. Si nasconde fino a che non vede i giovani chiudere la tenda e dopo poco si avvicina a questa ed una volta che ha sentito lo strofinio dei corpi sul piumone o dei gemiti decide di colpire? O semplicemente giunge sulla piazzola comunque frequentata da coppiette e trovandovi una tenda spara sapendo che per forza dovevano esservi due persone dentro? Se le avesse sentite dormire avrebbe sparato lo stesso? Se la risposta a questo quesito fosse negativa, allora dovremo pensare che anche i tedeschi del Caso 5 dovevano essere intenti in atti sessuali e quindi omosessuali ma - come già detto nell’approfondimento su IdP, a cui si rimanda - come può l’omicida confondere il corpo nudo di un uomo con quello di una donna? Dopotutto mira. Ed il seggiolino presente nella vettura? Come faceva l’assassino a sapere che dentro quella tenda non ci fosse anche un bambino? Davvero dobbiamo pensare che l’omicida abbia rischiato di uccidere un infante? Difficile.
Sarebbe, pertanto, lecito presumere che l’omicida abbia visto la coppia prima che questa ci coricasse e sapesse che non c’era alcun bambino con loro. In tal senso, verrebbero a noi in aiuto alcune tematiche che - per questioni di economia testuale - verranno poi sviluppate in un approfondimento ad hoc.
Una di queste tematiche è rappresentata dalla posizione dell’autovettura rispetto alla tenda da campeggio. Dalle foto è possibile vedere come l’auto sia parcheggiata in senso opposto all’ingresso della piazzola. Posizione utilissima per uscire dalla piazzola con più facilità a causa della poca ampiezza dello spazio che avrebbe compromesso la manovra di inversione, ma poco utile se si tratta di un posizionamento momentaneo della vettura per poi farla uscire poco dopo. Oltretutto, dalle foto, si può apprezzare la vicinanza (circa un metro) di questa alla tenda montata dai due turisti. Colpisce anche la presenza dei sacchetti dei picchetti della tenda fuori da questa, in prossimità della vettura, quasi buttati via in fretta, senza precisione.
Chi scrive ritiene probabile il parcheggio della vettura prima della montatura della tenda senza che questa - l’auto - sia più spostata dai francesi. La macchina, sembra difatti così parcata per poter illuminare quella zona scelta dalla coppia per montare la tenda quando ormai la luce del giorno era svanita. Si spiegherebbe così la scelta della piazzola - non certo un posto comodo e piacevole dove campeggiare per poter visitare Firenze - rispetto ad altra zona. La scena sembrerebbe far intuire difatti più per un luogo di fortuna, improvvisato, rispetto ad una precisa scelta. Non depone in tal senso la testimonianza di un passante per Via degli Scopeti che alle 14:00 di quel 6 Settembre 1985 avrebbe visto una coppia montare una tenda. Ora, chi scrive ritiene tale testimonianza opinabile sotto due profili: il pranzo consumato a Pisa dalla coppia di turisti ed il loro arrivo in una zona fuori mano rispetto alla direzione “Bologna” dei due.
Se la coppia invece fosse giunta sulla piazzola dopo l’orario di cena avrebbe parcheggiato la macchina non per una sosta momentanea, ma quantomeno utile per: non occupare tutta la piazzola, montare la tenda al buio ed illuminare la scena (come possiamo vedere in questi giorni a Settembre 20:00 ormai è buio). Fosse andata diversamente, cioè che la coppia avesse montato la tenda per poi andare a cena ed infine ritornare in loco, forse avrebbe parcheggiato l’auto senza doverla rivoltare verso l’uscita, considerando la difficoltà di parcare l’auto a così poca distanza dalla tenda. Perché poi, l’auto, a ben vedere, non è direzionata verso l’uscita, ma proprio verso la tenda tanto che se questa fosse stata messa in moto e fosse stata inserita la prima, l’avrebbe travolta.
È una tematica questa di primario interesse perché ci permette di poter anche collocare temporalmente un delitto che - come sappiamo - è stato spesso oggetto di discussione.

Tornando al nostro tema principale circa il modus operandi vediamo come in questo delitto l’omicida si trovi nuovamente ad affrontare, come nel Caso 5, una condizione diversa da quella che rappresenta il suo quadro tipico: due soggetti non in macchina.
Nell’episodio di due anni prima l’assassino aveva predisposto un assalto frazionato in più punti di sparo, dato che, come sappiamo, l’omicida gira attorno al van dei tedeschi. Diversamente dal Caso 5, però, qui l’omicida non poteva vedere chiaramente a cosa stava sparando, non essendovi “finestre” nella tenda. Poteva avere la certezza della presenza dei corpi, ma non della loro posizione, né tantomeno di eventuali loro reazioni dall’interno come il pararsi fra di loro o con oggetti di fortuna all’interno. Doveva aver quindi necessità di far confluire i soggetti in un punto preciso, che gli permette quindi di poter individuare con sicurezza la loro posizione all’interno.
È possibile, muovendosi per ipotesi, che l’assassino abbia agito, stante il suo posizionarsi fuori dall’entrata della tenda lievemente accovacciato e tenendo l’arma in senso parallelo al terreno ma in posizione più bassa rispetto a questo (la scarpata poco distante), in modo da poter sparare verso la tenda con i due turisti attratti verso l’uscita di questa. Potremo forse azzardare che quel famoso taglio sul retro della tenda, sia stato eseguito proprio in tal senso per creare paura nei soggetti all’interno che per vedere cosa stava accadendo si sarebbero diretti verso l’unica uscita o via di fuga possibile. O ancora, qualora il taglio fosse dovuto ad altre cause, magari l’omicida avrebbe potuto attirare la loro attenzione fuori dalla tenda, intimandogli di uscire per poi accoglierli coi colpi di pistola. Dopotutto l’omicida invece di sparare dalla direzione a lui più favorevole e riparata, ovvero il retro della tenda, preferisce colpire frontalmente a questa probabilmente proprio per bloccare l’uscita delle vittime avendole fatte confluire verso la cerniera della zanzariera. Deporrebbero in tal senso i fori di proiettile in senso longitudinale verso l’alto, come a dover colpire non una persona sdraiata, ma bensì seduta o comunque semi eretta all’interno della tenda.
È questo l’apparente correttivo o strategia messa in atto dall’omicida che per la prima - ed ultima - volta è costretto a colpire “alla cieca”.
La problematica che qui nasce è però altra. Come può l’omicida sincerarsi della morte dei due? È costretto ad aprire la tenda.
Qui, a chi scrive, sorge un dubbio che porta ad una riflessione che sarà poi argomentata in altra sede: come è possibile che l’omicida, che deve sincerarsi dell’avvenuta morte delle vittime - dato che non può vederle - con ancora colpi nel caricatore venga sorpreso da un soggetto che da posizione semisdraiata, colpito, impaurito ed in stato confusionale, deve rialzarsi ed uscire da una apertura larga poco meno di un metro. È una dinamica, questa, che dovrà essere approfondita ed affrontata.

3. Conclusioni.

L’analisi sopra esposta ci permette di delineare un quadro comportamentale dell’omicida fortemente orientato verso un soggetto lucido, capace di modulare il proprio agire verso un fine - la morte - su cui adagia la metodologia dei propri assalti.
Salta subito all’occhio come, dal delitto di Baccaiano (Caso 4), l’assassino smetta di colpire soggetti in prossimità del volante di guida. Dal 1982, difatti, predilige un’azione più ponderata, meno assalitoria e più d’attesa. Come se, diversamente dagli anni precedenti, prediligesse attendere il momento giusto in cui colpire. Un’attesa sulla scena del crimine che, paradossalmente, si scontra con lo stato di maggior allerta dell’epoca dovuto al susseguirsi sui delitti. L’assassino, pur di giungere al proprio obiettivo, preferisce attendere, nascosto nella boscaglia, il momento in cui le vittime sono lontane dal volante (Caso 5 e 6) si spogliano del tutto o per la quasi totalità (Caso 6 e 7) così da essere impossibilitate ad una fuga improvvisa. Non ritengo affatto un caso che gli unici corpi nudi che l’omicida lascia siano quelli degli ultimi due delitti e che a questi abbia riservato quella atroce doppia escissione prima mai adoperata. Dopotutto, erano 10 anni (da Caso 1 a Caso 6), che ai suoi occhi non si presentava davanti un corpo nudo di donna. Non si tratta, come già ampiamente espresso in sede di UdM, di una evoluzione di fantasia - la escalation escissoria - quanto più una diversa reazione ad una situazione primaria ben diversa dai casi precedenti al Caso 6. È l’azione a determinare la reazione.
Tutta questa preparazione, ci riporta quindi a quel quadro che vede l’omicida perfettamente in grado di controllare il proprio impulso omicida, capace di attendere un’annualità ed anche in sede criminis di essere in grado di scegliere il momento migliore in cui agire, nonostante l’attesa e la visione dei corpi.
Sono riflessioni, queste, che - ad avviso di chi scrive - non solo farebbero propendere per un soggetto dominatore dei propri impulsi (e non viceversa, escludendo quindi qualsiasi senso di megalomania e di raptus omicidiario, leggasi “delitto di Baccaiano”) ma che sottolineerebbero la natura prettamente predatoria ed organizzata di un omicida che probabilmente consapevole di un’unica finestra temporale ove colpire vive i momenti di latenza predisponendo una miglioria del suo agire, sempre più volto, purtroppo, ad una assoluta efficacia.

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